intervento che si è tenuto il 5 luglio al Teatro Dal Verme, a Milano.
Alla serata, dal titolo: «Il dialogo invisibile che esiste»,
nel quadro del Festival «La Milanesiana - Letteratura Musica Cinema» curato da Elisabetta Sgarbi,
hanno partecipato Elie Wiesel, Alain Elkann, Tahar Ben Jelloun, monsignor Rino Fisichella e la cantante francese Anne Ducros.
Il Cristianesimo non è pensabile al di fuori dell'Ebraismo. La Legge di Mosè rimane, per Cristo, volontà e parola di Dio, e quindi sacrale. E ha detto questo senza mezzi termini. In Matteo ( 5, 17- 18) si legge: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento: in verità vi dico, finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà della Legge neppure uno iota o un segno, senza che tutto sia compiuto». Dunque, Cristo non abolisce la Legge e i Profeti. Però proprio con Lui i Profeti cessano di essere, in quanto con Lui si era realizzato ciò che ciò che essi avevano preannunciato. In Luca ( 16, 16) si precisa: «La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora in poi viene annunciato il regno di Dio». Pertanto, le prove che Cristo sia figlio di Dio in primo luogo sono le profezie che sono durate per lungo tempo, e che nessun'altra religione ha avuto; in secondo luogo, dipendono dal fatto che tali profezie si siano verificate, perfino nei dettagli. Per quanto riguarda il rapporto del Cristianesimo con l'Ebraismo, è da tenere ben presente il fatto che l'ultimo profeta di Cristo è stato proprio Giovanni Battista, che non solo lo ha previsto, ma lo ha indicato a dito. Dopo la venuta di Cristo non ci sono più stati profeti in terra di Israele. E questo costituisce un dato di fatto veramente incontrovertibile. Pascal scriveva: « Per provare Gesù Cristo abbiamo le profezie, che sono prove solide e tangibili. Ed essendosi queste profezie avverate, ed essendo state provate come veritiere dal verificarsi dell'evento, fondano la certezza di questa verità e, pertanto la prova della divinità di Gesù Cristo » ( n. 730). E ancora: «Quando un solo uomo avesse composto un libro di predizioni su Gesù Cristo, nei riguardi del tempo e della maniera, e Gesù Cristo fosse venuto conformemente a tali profezie, ciò avrebbe una forza infinita. Ma qui c'è di più. È un seguito di uomini, per la durata di quattromila anni, che costantemente senza variazioni sorgono uno dopo l'altro a predire lo stesso avvenimento. È tutto un popolo che lo annuncia, e che esiste da quattromila anni per rendere solidamente testimonianza delle promesse ricevute e da cui essi non possono essere distolti, quali che siano le minacce e persecuzioni che loro vengono fatte: questo è ben altrimenti degno di considerazione» ( n. 728). Ciò che gli ebrei non hanno accettato nella figura di Cristo è proprio la sua umiltà, la sua kénosis, ossia il suo abbassamento, che è, invece, ciò che di più elevato c'è in Lui. Kierkegaard scriveva: « Chi è l'invitante? Gesù Cristo. Quale Gesù Cristo? Il Gesù Cristo che siede nella gloria alla destra del Padre? No. Dal trono della gloria egli non ha pronunciato parola alcuna. Dunque, nelle parole d'invito Gesù Cristo le ha pronunciate nel suo abbassamento, nella sua condizione di abbassamento». Ma è proprio la miseria dell'uomo assunta su di sé che Cristo vuole riscattare e sacralizzare, ossia tutte le sofferenze dell'uomo e la stessa morte. Albert Camus, nel suo libro Uomo in rivolta , ha espresso questo concetto in modo assai forte: «Cristo è venuto a risolvere due problemi principali, il male e la morte [...]. La sua soluzione è consistita innanzi tutto nell'assumerli in sé. Anche il dio uomo soffre, con pazienza. Né male né morte gli sono più assolutamente imputabili, perché è straziato e muore. La notte del Golgota ha tanta importanza nella storia degli uomini soltanto perché in quelle tenebre la divinità, abbandonando ostensibilmente i suoi privilegi tradizionali, ha vissuto fino in fondo, disperazione compresa, l'angoscia della morte. Si spiega così il Lamma sabactani e il dubbio tremendo del Cristo in agonia. L'agonia sarebbe lieve se fosse sostenuta dall'eterna speranza. Per essere uomo il dio deve disperare». Ed è proprio la morte in croce che per gli Ebrei è inaccettabile. Già fra coloro che lo videro sulla croce alcuni espressero tale convinzione. Matteo ( 27, 39- 43) riferisce: «E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: ' tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni', salva te stesso! Se tu sei figlio di Dio, scendi dalla croce! Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: ' Ha salvato altri, non può salvare se stesso. È il re d'Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti, Sono figlio di Dio'». Una prima risposta assai significativa data a tali accuse che richiamiamo è quella di Agostino: «Dice magari qualcuno: se era in lui questo potere, perché allora, quando i Giudei lo insultarono mentre era appeso alla croce e dissero: Se è Figlio di Dio, discenda dalla croce, non discese, in modo da mostrare il suo potere discendendo dalla croce? Non scese dalla croce perché insegnava la pazienza, e per questo rinviava la manifestazione della sua potenza. Infatti, se lasciandosi indurre dalle loro parole, fosse disceso, lo si sarebbe ritenuto vinto dal dolore per i loro insulti. Pertanto, non discese; rimase là inchiodato, pur potendo discendere quando avesse voluto. Era forse qualcosa di straordinario scendere dalla croce, per Lui che poté risorgere dal sepolcro?». Una seconda risposta che richiamiamo è quella di Kierkegaard, il quale ha affermato che proprio in quanto era Figlio di Dio, Cristo non è sceso dalla croce e ha provato la sua divinità, il suo essere vero Dio e vero uomo. Infatti, precisa Kierkegaard, «se Egli fosse stato un impostore, allora avrebbe potuto entrare facilmente nel personaggio e far vedere che, proprio nel momento in cui Egli dimostrava la sua divinità, si smentiva da solo». Ricordiamo infine uno splendido aforisma di Simone Weil, che suona come un vero e proprio paradosso esplosivo: « Dio ha dovuto incarnarsi e soffrire, per non essere inferiore all'uomo » , ossia per assumere su di sé, per amore, tutto ciò che è caratteristico dell'uomo ( che è una sua creatura), e proprio il dolore al massimo grado con la morte sulla croce.
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