domenica 20 gennaio 2008

Per uno sviluppo della laicità nel dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale in vista del bene comune

Una “regola” non è una legge, ma costituisce una base per ogni relazione la cui discrezionalità è così limitata; soprattutto in un consesso civile, seppur idealmente considerato, come quello laico, ecumenico, interreligioso o interculturale di una comunità locale, quale quello di una Città.
In una “regola” (ancorché implicita) dovrebbe riflettersi il costume ~ l’ethos ~ profondo e stabile di ciascuna persona e della società; i loro valori durevoli, quelli cioè destinati ad accompagnare le trasformazioni e le crisi di una comunità: un gruppo di persone che si ritrovano nell’accoglienza delle diversità e che indirizza la propria riflessione e la propria azione in vista del bene comune.
E’, infatti, dal “più piccolo e ristretto gruppo sociale del mondo”, che coglie questa esigenza “normativa” (ancorché implicita della regola), che nasce una comunità, entro la quale sono possibili valori condivisi (ancorché violati e ristabiliti costantemente) nella permanenza di valori arbitrari (la possibile costruzione di valori operata da ciascuno?) o non riconosciuti dagli altri (?) o semplicemente diversi (?).
Affinché nasca una comunità, cioè, non è sufficiente riflettere nella società civile il proprio costume individuale, il proprio stile di vita, le proprie libertà; questo approccio, infatti, non sarebbe sufficiente per stabilire un “ethos profondo e stabile” condiviso e riconosciuto da tutti. Il “più piccolo e ristretto gruppo sociale del mondo” si costituisce come comunità in presenza di un tessuto di relazioni alimentato dall’omogeneità e quando questo tessuto la produce innescando un processo di coesione.
Per non fraintendere: una comunità non esiste se gli individui che la compongono permangono in un tessuto di relazioni eterogenee, ovvero lasciano alla spontaneità e alle pur indispensabili capacità personali il governo della complessità nel loro incontrarsi-scontrarsi, del loro differenziarsi, il governo delle loro libertà.
Quando una società civile si dota di una “regola” (ancorché implicita), la regola è la traduzione coerente in norme dei valori condivisi di riferimento; e l’adesione (ancorché implicita) alla regola stessa diviene un modo di rin-saldare la propria appartenenza alla comunità, mentre per l’individuo, l’obbedienza (ancorché implicita) alla regola, diviene adesione morale, costitutiva della sua stessa identità all’interno della comunità stessa, sinonimo di fedeltà e rispetto delle posizioni di ciascuno.
Seppur indispensabili e necessarie, ragione, coscienza ed etica individuale, di fatti non sono sufficienti per alimentare e produrre una società civile che comincia a trasformarsi in una comunità: dall’incontro-scontro prodotto dalla pluralità delle etiche dis-omogenee, tipica del mondo individualista di oggi, rischia solo di emergere o il più forte o un’etica come prodotto, indifferente alla persona, alle relazioni e al mondo.
Una comunità non può nascere da una mera selezione “darwiniana”, ma è frutto di una “regola”, ancorché implicita; mai è il risultato di una sommatoria. Essa è piuttosto il prodotto della ragione e della storia.
Di fronte alla frammentazione etica, quotidiana, del nostro mondo o alla mancanza di un ethos profondo, in quanto tutto oggi è rimandato alle scelte contingenti, il problema da sentire è come creare, ri-creare e mantenere l’omogeneità di cui è espressione principale la “regola” sottesa al convivere civile che struttura una comunità. Non si tratta di provare nostalgia per un presunto fondamento ideale/ideologico (familiare, religioso, sociale, politico etc.), piuttosto si deve avere la forza di ri-affermare costantemente la necessità di un fondamento etico della società per il bene comune, appunto, di ciascuno e di tutti in vista di uno sviluppo integrale dell’uomo e di tutti gli uomini all'interno del mondo.
Il ripiegamento nostalgico è un’operazione non solo contraria alle dinamiche umane ~ ordinate alla ragione ~ lacerate ed esplose all’interno di una globalizzazione delle relazioni e di una pluralità delle etiche individuali e sociali, ma anche sterile ed insufficiente.
¿Oggi, ci sono dei valori comuni perché vi sia un’etica di tutti, visto che nella laicità contemporanea non sembra più esserci spazio per un “ethos” precostituito (quale può essere quello, ad esempio, della cristianità) e che la creazione di un tessuto comune, coeso e necessariamente omogeneo, non è più un dato di partenza?
La creazione di un tessuto comune, coeso ed omogeneo è una “finalità” – non un dato di partenza – da perseguire imprescindibilmente ogni volta che la società va in crisi; ogni volta che un uomo viene al mondo.
Questo sottende il valore imprescindibile dell’educazione, non dell’auto-determinazione; dell’obbligo a educare da parte della società civile, non semplicemente di essere ciò che si è da parte dell’individuo; dell’obbligo a tramandare, a mantenere, a recuperare … a difendere la persona nel tessuto delle relazioni che hanno sempre un prima, un’ora ed un dopo responsabile dentro una storia sostenibile anche per le generazioni future, per il mondo
Cosa è, infatti, che tiene unito una comunità?
E' nel governare la complessità che sta l'arte dell’uomo; ovvero, nel riordinare se stessi e le proprie rel-azioni all'interno di un comunità non perdendo mai di mira il bene comune; che non è mai fine a se stesso, ma traguarda l'uomo nel suo mondo, nell'universo storico e fisico per proiettarlo, per tramandarlo.
Che cosa è che giova, dunque? Paradossalmente, all’interno di una comunità coesa, omogenea, ovvero regolamentata, anzi ben ordinata, un possibile disonesto è ininfluente; all'interno di una società civile eterogenea, de-regolamentata, anzi dis-ordinata, anche la persona più arguta, più intelligente, più creativa, più capace, più preparata, più acculturata, anzi più ... “eticamente virtuosa”, è ininfluente.
E’ dunque opinabile rimettere al centro della questione culturale il valore imprescindibile dell’essere comunità, paradossalmente contrapposto al valore irrinunciabile della libertà, quanto della laicità dell'individuo e della società?
Od è discutibile il valore all'educazione di essere liberi per il bene comune, contrapposto alla libertà di essere ciò che si vuole o alla libertà da qualsiasi realtà?

Ciò che giova è ciò che fa rimanere in relazione, in quella relazione profonda, stabile che matura a discapito di qualsiasi scelta individualistica e di qualsiasi crisi all’interno della società (di qualsiasi gruppo religioso, di qualsiasi laicità) facendo costantemente sussistere una comunità, mentre cresce il bene comune dentro questo nostro micro/macrocosmo che è il mondo.

Nel ben ordinare la propria vita, quanto una comunità, vige una triplice regola: quella di usare la Memoria (perché la superficie del quotidiano non è mai la storia intera), quella di usare l'Intelletto (per discernere, ovvero per valorizzare ciò che è buono e tralasciare il poco di buono della nostra storia) e quella di usare la Volontà (per muoversi nel modo indicato dalla ragione e dalla coscienza etica in vista del bene, anzi del bene comune, al fine di permettere alla storia di proseguire il suo corso). La coerenza rispetto alle proprie idee, quanto il rispetto relativo alle idee altrui, o la stessa libertà di e da, tanto declamati oggi da una certa cultura, non apportano mai valore aggiunto se non vengono costantemente ben ordinati in vista del bene comune all'interno di questa visione universale in cui persona, comunità e mondo si intersecano ineluttabilmente.
Il ricorso alle tre potenze: memoria, intelletto e volontà, di retaggio ignaziano (Ignazio di Loyola), non è sinonimo di limitazione delle libertà individuali, ma un valido presupposto per affermare un’etica comune e per essere, creare, ri-creare, mantenere e difendere le relazioni in vista del bene comune e dunque per accrescere il valore imprescindibile della libertà di ciasuno per essere comunità all'interno di questo mondo da tramandare alle generazioni future (per questo possiamo dare un esempio e, dell'umana convivenza, un esempio è vivere la comunità).
Il ricorso alle tre potenze individua, forse, la più piccola e basilare ed insignificante “regola”, ancorché implicita, che può fondare una comunità…

“Se si pensa al volo di uno stormo di uccelli, la forma ordinata che assume non dipende da una legge generale o dal comando di un capo, ma ‘emerge’ dalle interrelazioni tra gli individui che seguono poche regole base, come quella di porsi in una certa posizione rispetto ai vicini” (cfr. “Storie di ordinario caos”, articolo di Luca de Biase apparso su Nòva – Il Sole-24 ore di giovedì 16 marzo 2006). “La vera amicizia non consiste nel trovare nuovi amici, ma nel vedere i soliti con occhi diversi. I pensieri, come le parole, hanno la loro importanza, possono formare una coscienza: qualsiasi cosa noi amiamo, è quello che noi siamo. Questo mi indirizza” (una frase nata e soffermata per scritto avendo letto e riflettuto su due pensieri, uno di Marcel Proust, l’altro di David Leavitt dal “Linguaggio perduto delle gru”).

Prato, lì 19-20.03.2006 / Memoria di san Giuseppe, patrono dell’umanità / 06.01.2007 / Epifania del Signore / 09.04.2007 / Lunedì dell’Angelo / 20.01.2008 / Memoria di san Sebastiano.

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