lunedì 19 novembre 2007

l'esperienza delle nostre ferite, in Cristo

«Il Prologo del Vangelo di Giovanni ci dice che la luce è venuta per risplendere nelle tenebre. Ma se non riconosciamo queste tenebre in noi, se non le abbiamo toccate attraverso l'esperienza delle nostre ferite, la luce non può entrarvi. Ci sono diverse tenebre nell'animo umano, c'è il bisogno di controllare e dominare, di voler controllare tutto con la volontà coltivando una personalità dominante che non sa ascoltare e che cercherà sempre di dominare le situazioni. Sulla via discendente, noi lasciamo che lo Spirito Santo penetri nelle nostre fragilità, nel nostro corpo e nella nostra psiche ferita e a poco a poco facciamo l'esperienza della Risurrezione. Se crediamo di essere perfetti, saremo come il fratello maggiore del figliol prodigo che giudica tutto. Ma il figliol prodigo non giudica perchè ha sperimentato il perdono. Si è lasciato avvolgere dalle braccia si suo padre e si è sentito amare così come era, fin nelle sue ferite e nelle sue fragilità. E al termine di questa via discendente si è rialzato per non giudicare più. Anche la vita in comunità, nelle relazioni è una via discendente. Si crede che tutto sia bello e perfetto e poi si scoprono ingiustizie, mancanza d'ascolto, imperfezioni e si incomincia a dubitare. (…)
Possiamo aprirci o chiuderci, dire sì alla vita e cercare di prenderne il comando oppure dire no e farci governare dalle paure: paura dell'avvenire, paura di non essere amati, paura del fallimento, paura di ciò che gli altri pensano di noi,
paura della sofferenza e della morte. Dire sì, invece, non è il sì ingenuo ed idealista, non è il sì ad un sogno o ad un'illusione. E' un sì al nostro essere profondo, un sì al nostro passato, al nostro corpo, alla nostra famiglia d'origine, un sì alla nostra terra di tempeste, di inverni, di sofferenze, ma anche di giornate chiare e soleggiate, di aria fresca, di acqua che scorre, di occhi di bambini, di canti di uccelli.
La comunità, le relazioni sono il luogo della scoperta di ciò che non si può guardare ed accettare: la propria povertà radicale. Si scopre quanto si è piccoli e poveri. Si fatica da accettare questa povertà e sofferenza. E' così forte nell'animo umano il rifiuto della sofferenza!
La saggezza della via discendente consiste nell’accogliere le nostre povertà, le nostre ferite e quelle degli altri, ci fa scoprire progressivamente il mondo d’angoscia che abbiamo dentro, la nostra durezza, la nostra capacità di fare anche del male. Questa via ci rivela semplicemente che Dio risiede nel cuore della nostra povertà e della nostra fragilità. (…)
Qualche persona di ritorno da Calcutta diceva che non sarebbe mai più tornata perchè aveva visto morire delle persone per strada. Madre Teresa ha detto:"Ho visto delle persone morire per strada. Io resto".
Gesù continua a dire: nelle tue sofferenze, nelle tue tenebre, nel tuo fallimento Io resto. (…)

Si vive da risorti riconoscendo che in Cristo tutto è stato adempiuto. Finché continueremo ad agire come se la salvezza del mondo dipendesse da noi ci mancherà la fede di smuovere le montagne. In Cristo la sofferenza ed il dolore umano sono stati già accettati e sofferti; in Lui la nostra umanità lacerata è stata riconciliata ed attratta nell’intimità del rapporto tra il Padre ed il Figlio. La nostra azione va quindi intesa come una disciplina con la quale rendere visibile ciò che è stato già compiuto. E' un'azione basata sulla fiducia di camminare su un terreno solido anche quando siamo circondati dal caos, dalla confusione, dalla violenza, dall'odio. Ce ne offre un toccante esempio una donna che per molti anni ha vissuto e lavorato nel Burundi. Un giorno fu testimone di una crudele guerra tribale che distrusse tutto quello che lei ed i suoi collaboratori avevano costruito. Molta gente innocente che lei aveva teneramente amato fu massacrata dinanzi ai suoi occhi. Più tardi poteva dire che la consapevolezza che tutta questa sofferenza era stata compiuta in Cristo le aveva impedito di subire un collasso mentale e psicologico. La sua profonda comprensione dell'atto salvifico di Dio le consentì di non andarsene e di rimanere attiva in mezzo ad un'indescrivibile miseria, affrontando la realtà della situazione con occhi ed orecchi aperti. Le sue azioni non miravano solo a ricostruire, e quindi a superare i mali di cui era stata testimone, ma erano un modo per ricordare alla sua gente che Dio non è un Dio di odio e di violenza, ma un Dio di tenerezza e di compassione. Forse solo quelli che hanno sofferto molto possono comprendere che cosa significa dire che Cristo ha sofferto i nostri dolori ed ha compiuto sulla croce la nostra riconciliazione».

(Jean Vanire - Henri J.M.Nouwen)

Nessun commento: