lunedì 31 dicembre 2007

Egli ha fatto bene ogni cosa

Dietrich Bonhoeffer
DBW 14, 258s

"Alla fine di questo anno vogliamo parlare di ogni settimana, di ogni ora che è passata. Vogliamo farlo pregando, finché non vi sarà più alcuna ora di cui non vorremo dire: 'Egli ha fatto bene ogni cosa' (Mc 7,37). Proprio i giorni che sono stati difficili, che ci hanno tormentato e impaurito, i giorni che ci hanno lasciato una traccia di amarezza, oggi non li volgiamo lasciare dietro di noi prima di essere grati anche per essi e di aver confessato umilmente: 'Egli ha fatto bene ogni cosa'. Non li dobbiamo dimenticare, ma superare. Questo avviene tramite la gratitudine. Non dobbiamo sciogliere l'enigma irrisolto del passato e cadere in un tormentoso rimuginio, ma lasciar stare l'incomprensibile e riconsegnarlo pacificamente nelle mani di Dio. Questo avviene tramite l'umiltà: 'Egli ha fatto bene ogni cosa'. Ma rimane ancora il pungiglione più temibile: 'Mia colpa, mia colpa!'. [...] Il frutto maligno del mio peccato che continua a produrre incessantemente i suoi effetti. Come posso metterli fine? E certo non sei un cristiano, ma ti indurisci soltanto nel tuo peccato, se non sei in grado id dire, anche della tua cola: 'EGLI ha fatto bene ogni cosa!'. E questo non significa che noi abbiamo fatto bene ogni cosa. [...] Questa è l'ultima e più sorprendente conoscenza del cristiano, che egli può dire anche del suo peccato: 'Egli ha fatto bene ogni cosa'".

tratto da "Voglio vivere questi giorni con voi", a cura di Manfred Weber, Queriniana, Brescia 2005.

Il Verbo si fece carne
Dal vangelo secondo Giovanni 1,1-18
In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta.
Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto.
A quanti però l'hanno accolto,
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue,
né da volere di carne, né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli rende testimonianza
e grida: «Ecco l'uomo di cui io dissi:
Colui che viene dopo di me mi è passato avanti,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia.
Perché la legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno l'ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre,
lui lo ha rivelato.

sabato 29 dicembre 2007

Dio sa aspettare

Dietrich Bonhoeffer
DBW 13, 514s

"L'uomo è il perdente, Dio il vincitore. Dio lascia che l'uomo parta e gli fa fare progressi, gli fa avere successo e in questo sembra puramente passivo, le sue contromosse sembrano proprio senza importanza, al punto che le notiamo raramente. Così andiamo avanti, fieri, superbi, certi del nostro successo e della nostra vittoria. Ma Dio sa aspettare e talora aspetta anno dopo anno. [...] Dio aspetta nella speranza che l'uomo comprenda finalmente le sue mosse e voglia tenerne conto nella sua vita. Ma una volta in ogni vita - e questo può essere anche soltanto nell'ora della morte - Dio incrocia la sua vita, in modo tale che l'uomo non può fare più alcun passo, deve fermarsi e deve riconoscere con timore e tremore la potenza di Dio e la propria debolezza. [...] Soltanto in questi grandi momenti della nostra vita comprendiamo il significato della guida di Dio in essa, comprendiamo la potenza e l'ira di Dio, e soltanto ora riconosciamo che queste ore in cui Dio ha incrociato la nostra vita, sono le uniche ore realmente importanti della nostra vita. Soltanto esse rendono la nostra vita degna di essere vissuta".

tratto da "Voglio vivere questi giorni con voi", a cura di Manfred Weber, Queriniana, Brescia 2005.

venerdì 28 dicembre 2007

Festa dei santi martiri Innocenti - Esiste soltanto una vita vera

Dietrich Bonhoeffer
DBW 13, 513

"La nostra vita non è affatto una linea retta che segue la nostra volontà e il nostro intelletto, bensì un qualcosa che è formato da due diverse linee, due diversi elementi, due diverse forze. La vita si compone dei pensieri dell'uomo e delle vie di Dio; e in verità non vi è affatto una via dell'uomo, poiché 'il cuore dell'uomo pensa molto alla sua vita' (Pr 16,9), il che significa che da una parte c'è soltanto un progetto di vita, una via ideale, teorica, illusoria e dall'altra un'unica vera via per la quale dobbiamo inevitabilmente andare, la via di Dio. La differenza fra le due vie è che l'uomo vorrebbe prevedere in una volta la totalità della sua vita, ma la via di Dio procede passo dopo passo: 'il cuore dell'uomo pensa molto alla sua via, ma il Signore guida i suoi passi'. [...] Dio vorrebbe che l'uomo andasse passo dopo passo, guidando la sua vita non con le proprie idee, ma con la Parola di Dio che lo raggiunge a ogni passo, ogni volta che la cerca. Non c'è alcuna Parola di Dio per la totalità della nostra esistenza. La Parola di Dio è nuova e libera, oggi e domani, e può soltanto essere riferita al momento in cui la ascoltiamo".

tratto da "Voglio vivere questi giorni con voi", a cura di Manfred Weber, Queriniana, Brescia 2005.

martedì 25 dicembre 2007

Natale del Signore - Lettura breve ai secondi Vespri

Inizio della prima lettera di Giovanni 1 Gv 1, 1-3
Vi annunziamo ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita. Poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi. Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.

Natale del Signore - Riconosci, cristiano, la tua dignità




Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(Disc. 1 per il Natale, 1-3; Pl 54, 190-193)

Riconosci, cristiano, la tua dignità
Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c'è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità: la causa della gioia è comune a tutti perché il nostro Signore, vincitore del peccato e della morte, non avendo trovato nessuno libero dalla colpa, è venuto per la liberazione di tutti. Esulti il santo, perché si avvicina al premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano, perché è chiamato alla vita.
Il Figlio di Dio infatti, giunta la pienezza dei tempi che l'impenetrabile disegno divino aveva disposto, volendo riconciliare con il suo Creatore la natura umana, l'assunse lui stesso in modo che il diavolo, apportatore della morte, fosse vinto da quella stessa natura che prima lui aveva reso schiava. Così alla nascita del Signore gli angeli cantano esultanti: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2, 14). Essi vedono che la celeste Gerusalemme è formata da tutti i popoli del mondo. Di questa opera ineffabile dell'amore divino, di cui tanto gioiscono gli angeli nella loro altezza, quanto non deve rallegrarsi l'umanità nella sua miseria! O carissimi, rendiamo grazie a Dio Padre per mezzo del suo Figlio nello Spirito Santo, perché nella infinita misericordia, con cui ci ha amati, ha avuto pietà di noi, «e, mentre eravamo morti per i nostri peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo» (cfr. Ef 2, 5) perché fossimo in lui creatura nuova, nuova opera delle sue mani.
Deponiamo dunque «l'uomo vecchio con la condotta di prima» (Ef 4, 22) e, poiché siamo partecipi della generazione di Cristo, rinunziamo alle opere della carne. Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all'abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricòrdati che, strappato al potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce del Regno di Dio. Con il sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo! Non mettere in fuga un ospite così illustre con un comportamento riprovevole e non sottometterti di nuovo alla schiavitù del demonio. Ricorda che il prezzo pagato per il tuo riscatto è il sangue di Cristo.

lunedì 24 dicembre 2007

Natale del Signore - Cantico ai primi Vespri

Lettera ai Filippesi 2,6-11

Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, *
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;

ma spogliò se stesso, †
assumendo la condizione di servo *
e divenendo simile agli uomini;

apparso in forma umana, umiliò se stesso †
facendosi obbediente fino alla morte *
e alla morte di croce.

Per questo Dio l'ha esaltato *
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;

perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi †
nei cieli, sulla terra *
e sotto terra;

e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, *
a gloria di Dio Padre.

giovedì 20 dicembre 2007

La storia di Natale

C’è una storia intera dietro Maria che accoglie.
Quanto semplice il gesto di Maria,
quanto universale,
per ciascuno che accoglie
nel medesimo, fiducioso, umile e consapevole modo,
la Parola che si fa carne in noi.

"Dio si fa uomo per amarci di più!", mi disse un'amica.

E continuò: "Siccome non lo avremmo capito, Dio si è fatto uomo:
nudo, fragile, debole, tentabile, emigrato, spostato,
soggetto ad essere tradito di nuovo per libero rifiuto...


Poi, fece una pausa e soggiunse: "Che grazia capirlo!"

Ti auguro per Natale questa gioia qui.
Questa ti basti, questa ti riempia il cuore!



Perché il Natale viene in mezzo alla famiglia / Risplende in essa
di una Luce che si accende / dentro

Speranza ... Fede ... Carità

domenica 16 dicembre 2007

Domenica 16 dicembre 2007 - terza di avvento

Giovanni è la voce, Cristo la Parola
Dai «Discorsi» di sant'Agostino, vescovo (Disc. 293, 3; Pl 1328-1329)

Giovanni è la voce. Del Signore invece si dice: «In principio era il Verbo» (Gv 1, 1). Giovanni è la voce che passa, Cristo è il Verbo eterno che era in principio.
Se alla voce togli la parola, che cosa resta? Dove non c'è senso intelligibile, ciò che rimane è semplicemente un vago suono. La voce senza parola colpisce bensì l'udito, ma non edifica il cuore.
Vediamo in proposito qual è il procedimento che si verifica nella sfera della comunicazione del pensiero. Quando penso ciò che devo dire, nel cuore fiorisce subito la parola. Volendo parlare a te, cerco in qual modo posso fare entrare in te quella parola, che si trova dentro di me. Le do suono e così, mediante la voce, parlo a te. Il suono della voce ti reca il contenuto intellettuale della parola e dopo averti rivelato il suo significato svanisce. Ma la parola recata a te dal suono è ormai nel tuo cuore, senza peraltro essersi allontanata dal mio.
Non ti pare, dunque, che il suono stesso che è stato latore della parola ti dica: «Egli deve crescere e io invece diminuire»? (Gv 3, 30). Il suono della voce si è fatto sentire a servizio dell'intelligenza, e poi se n'è andato quasi dicendo: «Questa mia gioia si è compiuta» (Gv 3, 29). Teniamo ben salda la parola, non perdiamo la parola concepita nel cuore.
Vuoi constatare come la voce passa e la divinità del Verbo resta? Dov'è ora il battesimo di Giovanni? Lo impartì e poi se ne andò. Ma il battesimo di Gesù continua ad essere amministrato. Tutti crediamo in Cristo, speriamo la salvezza in Cristo: questo volle significare la voce.
E siccome è difficile distinguere la parola dalla voce, lo stesso Giovanni fu ritenuto il Cristo. La voce fu creduta la Parola; ma la voce si riconobbe tale per non recare danno alla Parola. «Non sono io, disse, il Cristo, né Elia, né il profeta». Gli fu risposto: Ma tu allora chi sei? Io sono, disse, la voce di colui che grida nel deserto: Preparate la via del Signore (cfr. Gv 1, 20-23). Voce di chi grida nel deserto, voce di chi rompe il silenzio.
«Preparate la strada» significa: Io risuono al fine di introdurre Lui nel cuore, ma Lui non si degna di venire dove voglio introdurlo, se non gli preparate la via.
Che significa: Preparate la via, se non: chiedete come si deve? Che significa: Preparate la via, se non: siate umili di cuore? Prendete esempio dal Battista che, scambiato per il Cristo, dice di non essere colui che gli altri credono sia. Si guarda bene dallo sfruttare l'errore degli altri ai fini di una sua affermazione personale. Eppure se avesse detto di essere il Cristo, sarebbe stato facilmente creduto, poiché lo si credeva tale prima ancora che parlasse. Non lo disse, riconoscendo semplicemente quello che era. Precisò le debite differenze. Si mantenne nell'umiltà. Vide giusto dove trovare la salvezza. Comprese di non essere che una lucerna e temette di venire spenta dal vento della superbia.

sabato 15 dicembre 2007

C'è il mistero gioioso e bellissimo della neve

C'è il mistero gioioso e bellissimo della neve
che scende quest'oggi
impalpabile silenzio
richiede altrettanto silenzio

Ascolta la voce che si fa nel cuore
Mistero

venerdì 14 dicembre 2007

San Giovanni della Croce - sacerdote e dottore della Chiesa (1542-1591)

La conoscenza del mistero nascosto in Cristo Gesù
Dal «Cantico spirituale» di san Giovanni della Croce, sacerdote.

Per quanto siano molti i misteri e le meraviglie scoperte dai santi dottori e intese dalle anime Sante nel presente stato di vita, tuttavia ne è rimasta da dire e da capire la maggior parte e quindi c’è ancora molto da approfondire in Cristo.
Egli infatti è come una miniera ricca di immense vene di tesori, dei quali, per quanto si vada a fondo, non si trova la fine; anzi in ciascuna cavità si scoprono nuovi filoni di ricchezze.
Perciò san Paolo dice di lui: «In Cristo si trovano nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3) nei quali l’anima non può penetrare, se prima non passa per le strettezze della sofferenza interna ed esterna. Infatti a quel poco che è possibile sapere in questa vita dei misteri di Cristo, non si può giungere senza aver sofferto molto, aver ricevuto da Dio numerose gra zie intellettuali e sensibili e senza aver fatto precedere un lungo esercizio spirituale, poiché tutte queste grazie sono più imperfette della sapienza dei misteri di Cristo, per la quale servono di semplice disposizione.
Oh, se l'anima riuscisse a capire che non si può giungere nel folto delle ricchezze e della sapienza di Dio, se non entrando dove più numerose sono le sofferenze di ogni genere, riponendovi la sua consolazione e il suo desiderio!
Come chi desidera veramente la sapienza divina, in primo luogo brama di entrare veramente nello spessore della croce!
Per questo san Paolo ammoniva i discepoli di Efeso che non venissero meno nelle tribolazioni, ma stessero forti e radicati e fondati nella carità, e così potessero comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, per essere ricolmi di tutta la pienezza di Dio (cfr. Ef 3, 17-19). Per accedere alle ricchezze della sapienza divina la porta è la croce. Si tratta di una porta stretta nella quale pochi desiderano entrare, mentre sono molti coloro che amano i diletti a cui si giunge per suo mezzo.

giovedì 13 dicembre 2007

Santa Lucia - Vergine e martire (inizio sec. IV)

Lo splendore dell'anima illumina la grazia del corpo
Dal libro «Sulla verginità» di sant'Ambrogio, vescovo
(Cap. 12, 68. 74-75; 13, 77-78; PL 16, 281. 283. 285-286)

Mi rivolgo a te, che vieni dal popolo, dalla gente comune, ma appartieni alla schiera delle vergini. In te lo splendore dell'anima si irradia sulla grazia esteriore della persona. Per questo sei un'immagine fedele della Chiesa.
A te dico: chiusa nella tua stanza non cessare mai di tenere fisso il pensiero su Cristo, anche di notte. Anzi rimani ad ogni istante in attesa della sua visita. E' questo che desidera da te, per questo ti ha scelta. Egli entrerà se troverà aperta la tua porta. Sta' sicura, ha promesso di venire e non mancherà alla sua parola. Quando verrà, colui che hai cercato, abbraccialo, familiarizza con lui e sarai illuminata. Trattienilo, prega che non se ne vada presto, scongiuralo che non si allontani. Il Verbo di Dio infatti corre, non prova stanchezza, non è preso da negligenza. L'anima tua gli vada incontro sulla sua parola, e s'intrattenga poi sull'impronta lasciata dal suo divino parlare: egli passa via presto.
E la vergine da parte sua che cosa dice? L'ho cercato ma non l'ho trovato; l'ho chiamato ma non mi ha risposto (cfr. Ct 5, 6). Se così presto se n'è andato via, non credere che egli non sia contento di te che lo invocasti, lo pregasti, gli apristi la porta: spesso egli permette che siamo messi alla prova. Vedi che cosa dice nel vangelo alle folle che lo pregavano di non andarsene: Bisogna che io porti l'annunzio della parola di Dio anche ad altre città, poiché per questo sono stato mandato (cfr. Lc 4, 43).
Ma anche se ti sembra che se ne sia andato, va' a cercarlo ancora.
E' dalla santa Chiesa che devi imparare a trattenere Cristo. Anzi te l`ha già insegnato se ben comprendi ciò che leggi: Avevo appena oltrepassato le guardie, quando trovai l'amato del mio cuore. L'ho stretto forte e non lo lascerò (cfr. Ct 3, 4). Quali dunque i mezzi con cui trattenere Cristo? Non la violenza delle catene, non le strette delle funi, ma i vincoli della carità, i legami dello spirito. Lo trattiene l'amore dell'anima.
Se vuoi anche tu possedere Cristo, cercalo incessantemente e non temere la sofferenza. E' più facile spesso trovarlo tra i supplizi del corpo, tra le mani dei persecutori. Lei dice. Poco tempo era trascorso da quando le avevo oltrepassate. Infatti una volta libera dalle mani dei persecutori e vittoriosa sui poteri del male, subito, all'istante ti verrà incontro Cristo, né permetterà che si prolunghi la tua prova.
Colei che così cerca Cristo, che ha trovato Cristo, può dire: L'ho stretto forte e non lo lascerò finché non lo abbia condotto nella casa di mia madre, nella stanza della mia genitrice (cfr. Ct 3, 4). Che cos'è la casa, la stanza di tua madre se non il santuario più intimo del tuo essere?
Custodisci questa casa, purificane l'interno. Divenuta perfettamente pulita, e non più inquinata da brutture di infedeltà, sorga quale casa spirituale, cementata con la pietra angolare, si innalzi in un sacerdozio santo, e lo Spirito Paraclito abiti in essa. Colei che cerca Cristo a questo modo, colei che così prega Cristo, non è abbandonata da lui, anzi riceve frequenti visite. Egli infatti è con noi fino alla fine del mondo.

mercoledì 12 dicembre 2007

Lezione per giovani "apprendisti architetti" (II): la vera bellezza dell'architettura e la modestia dei vignaioli..

L’uomo è un animale ragionevole con una vita spirituale, un’anima rivestita da un corpo, piuttosto che un corpo animato da uno spirito alieno. L’uomo, insomma, è un animale dotato di un corpo e di un’anima, in cui la sua parte razionale e spirituale convivono egregiamente. Dicevo nella lezione precedente che “le ragioni del fare si ritrovano nello spirito”, non con questo che sia implicato l’homo religiosus obbligatoriamente, ma la parte di un uomo, cosiddetta “spirituale” ed “interiore”, sì. Per questo l’architettura possiede sempre almeno tre qualità: la cultura (è espressione di valori di una società), un fondamento teorico (è razionale), infine la bellezza … non propriamente estetica, ma rappresentante il bello attraverso quel passaggio – unico ed irripetibile – che emerge dalla spiritualità e dall’interiorità di chi la costruisce …

L’architettura giunge alla “bellezza” solo se attraversa ed esprime “razionalmente” dei “valori” rielaborati in quel processo spirituale unico ed irripetibile dell’interiorità dell’architetto genericamente e non individualisticamente inteso. In questo senso la “bellezza” è espressione, non solo dell’esteticamente bello, ma del giusto – bonum – in quanto bene per l’uomo, del vero – verum – in quanto vero per tutti gli uomini e per ciascuna persona, infine “pulcher”, ovvero “bella”.

Da questa visione dell’architettura “spirituale” e “interiore” assieme, scaturisce dunque una visione altamente etica del fare architettura. Solo se parte da questa percezione spirituale ed interiore del vivere umano, del vivere civile e sociale, l’architettura sarà capace di essere “bella”, perché “buona”, perché “vera”, perché rappresentativa della dignità e della bellezza della persona umana, giocatasi per il bene comune (cfr. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica).

Se queste sono le qualità dell’architettura, le qualità di coloro che fabbricano architetture, allora, quali saranno? Prima di tutto la modestia dei vignaioli che testardamente amano la propria terra e che sanno essere umili, come altri, e non padroni di una vigna non loro; la professionalità che caparbiamente alimenta il proprio sapere tecnico-scientifico per meglio costruire, ma anche la professionalità intesa come il talento del vignaiolo messo a disposizione di tutti e di ciascuno; infine, l’attitudine tipica del vignaiolo saggio che non teme di coltivare il fondamento teorico del proprio fare, perché giunto alla consapevolezza di non essere figlio di se stesso, non solo ha riconosciuto un dono messo a disposizione nelle proprie mani dai suoi avi, ma ha compreso la necessità di coltivare – oltre che la vigna – il proprio campo interiore, la propria mente ed il proprio cuore – quel luogo spirituale di ogni uomo, della ragione e dello spirito assieme.

Un’azione, allora, quella dell’umile e del saggio vignaiolo che, tramite l’attitudine a coltivare lo spazio teorico dentro il fare del costruire, svela e rivela il mistero nascosto e presente nella natura e nello spazio architettonico; un agire spirituale ed etico assieme, affinché tutti gli uomini possano godere della vigna e del frutto della vigna stessa. Un agire spiritualmente rilevante ed eticamente necessario …

Si pensi alle grandi crette di Burri a Gibellina, dove lo spazio diventa un luogo percorso dalle stagioni, un campo coltivato dai pellegrini che vi entrano e che vi escono, una vigna sotto il sole e sotto la luna, simboli del tempo e del richiamo all’eternità … Il grande apprendista fabbricatore di architetture – il giovane apprendista architetto – si fa certamente re, sacerdote, profeta dell’umanità, ma parte dalla vigna e dal suo essere sempre e costantemente vignaiolo, uomo nella natura e uomo come gli altri uomini, uomo in mezzo alla spazio della natura e della cultura, ma uomo – anche – che eleva se stesso, la propria umanità per darle pienezza.

Non è casuale che né la venustas, né l’utilitas, né la firmitas da sole, senza la concinnitas, senza cioè colei che le armonizza o le concilia, possano dischiudere il mistero della “bellezza” perché la “bellezza” è sempre l’umile ancella della grande spiritualità e della grande interiorità dell’uomo e contemporaneamente è l’umile dominio esercitato dall’uomo stesso che mette ordine nel caos per far brillare l’avventurosa stella dell’umanità in mezzo all’universo.

Architettura, allora, che ci fa essere sicuramente dominus – signori e dominatori – ma anche hospes – ospiti di questa terra come vignaioli.

“Architettura” come “bellezza”, come buona e bella notizia, come lume spirituale di chi comprende che la vita è dono da coltivare, da accudire, da difendere, da trasmettere, da valorizzare, da purificare, da emendare, da elevare spiritualmente – certamente secondo ragione.

martedì 11 dicembre 2007

Lezione per giovani "apprendisti architetti" (I): l'uomo spirituale e l'architettura.

Analizzo tre espressioni, prima di entrare nel merito di questa “lezione per giovani apprendisti architetti”: uomo religioso, uomo spirituale e uomo interiore. Nessuno si spaventi… Le ragioni del fare si ritrovano nello spirito; con questo non voglio implicare l’homo religiosus, ma la parte di un uomo, cosiddetta “trascendente” ed “interiore”, sì. Vediamo come ed in quale senso …

Mentre l’uomo religioso può avere una vita spirituale – soltanto se matura la sua fede e cresce umanamente – e l’uomo spirituale può essere religioso solo e soltanto se fa quel salto che la fede gli propone, quest’ultimo, in mancanza della fede, resta comunque un uomo che trascende la realtà. Per l’uomo spirituale la realtà non è la fine, la conclusione, della sua umanità anche se Dio non è il suo fine. L’uomo spirituale vive una dimensione dell’esistenza aperta ed universale al di là del proprio limite; insomma, ha un rapporto diverso con la materia.
Per fare un esempio richiamo la grande esperienza di Antoine De Saint-Exupery nel secolo scorso. Questi ha lasciato pagine assolutamente importanti ed uniche della sua esistenza e della sua esperienza come uomo, come aviatore e come artista; da non credente è riuscito a toccare vette stupefacenti, non solo per ricchezza, per sensibilità e per vita interiore, ma per aver continuamente colto un mistero che nella realtà parla all’uomo: l’infinitamente trascendente della materia. Rimando alla sua biografia e alle sue note di viaggio – non solo al Piccolissimo Principe, da molti amato.

Se è pur vero che l’uomo interiore non ha niente a che vedere di per sé né con l’uomo religioso, né tanto meno con l’uomo spirituale (una profonda ed intensa vita interiore può benissimo essere atea o materialista, ad esempio), è altrettanto vero che una vita religiosa – se ben matura – non solo è spirituale, ma anche ricca di vita interiore, ed una vita spirituale – seppur da non credente – ha sempre una ricchezza interiore, umanamente universale. Dunque, una vita interiore che si apre alla vita spirituale può fare una certa differenza …

“Le ragioni del fare si ritrovano nello spirito”, non con questo che sia implicato obbligatoriamente l’homo religiosus, ma che sia implicita la parte di un uomo, cosiddetta “spirituale”, sì. L’uomo spirituale non si ferma di fronte alla materia, ma di fronte ad essa si interroga e cerca sempre di darsi una risposta diversa da ciò che subito gli appare. Tende a manipolarla – gesto creativo per eccellenza – e tende a rintracciare una storia, a raccontarla, a narrarla – gesto altrettanto creativo, perché implica la ricerca di senso (chi sono, da dove vengo e dove vado). E’ chiaro, a questo punto, che con questo mio dire sulla “spiritualità” non mi riferisco tanto ad una nozione “metafisica” o “idealista” sull’uomo, quanto piuttosto ad una visione “esistenzialista” dell’uomo stesso. Tanto per capirsi: fra Cartesio e Pascal ho sempre preferito il secondo, fra Hegel e Nietzsche ho sempre preferito il secondo, fra Kant e Kierkegaard ho sempre preferito il secondo, fra Schopenhauer e Bergson ho sempre preferito il secondo, seppur ho amato il primo; fra Heidegger e Maritan ho sempre preferito il secondo, seppur ho apprezzato il primo etc.

Ebbene, se l’uomo spirituale non si esaurisce nel suo “essere materia” – seppure il suo esserci è percepito per scomparire – allora ai suoi occhi la materia stessa acquista una dignità diversa: diventa corpo animato e lo spazio, ad esempio, diventa luogo. Per l’uomo spirituale la realtà non è pura phisis, ma è soprattutto pneuma, luogo della storia e dell’incontro …
In un certo qual senso per parlare del corpo/anima, anziché della materia, o di luoghi – anziché di spazi – bisogna fare un salto “spirituale”: non solo gli uomini non sono semplici individui, monadi sparse sul globo, ma il loro essere persone in relazione fra di sé – che implica una fraternità – va sempre riconquistato con quella ragione del cuore – direbbe Blaise Pascal – che la ragione da sola non ha.

Piazza del Campidoglio – così come la Cappella Sistina – a Roma, ad esempio, più che materia hanno anima e più che spazi sono luoghi. Sono “luoghi animati” capaci di narrare e di raccontare al di là della mano che li ha creati e del tempo che li ha resi celebri. C’è, insomma, nei luoghi la ricerca di una ragione umana altra dalla semplice razionalità, c’è l’invito ad interrogarsi e a lasciarsi interrogare ben oltre l’apparenza, ben oltre le proporzioni dello spazio, ben oltre l’uso sapiente dei materiali, della tecnica, dei linguaggi, delle regole, delle leggi …

Dar vita all’architettura è concepire una vita spirituale; questa è vita eticamente rilevante. Ma questa è un’altra storia.

domenica 9 dicembre 2007

Domenica 9 dicembre 2007 - seconda di avvento

Dal «Commento sul profeta Isaia» di Eusebio, vescovo di Cesarea.

(Cap. 40, vv. 3. 9; PG 24, 366-367)

Voce di uno che grida nel deserto
Voce di uno che grida nel deserto: «Preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio» (Is 40, 3).
Dichiara apertamente che le cose riferite nel vaticinio, e cioè l'avvento della gloria del Signore e la manifestazione a tutta l'umanità della salvezza di Dio, avverranno non in Gerusalemme, ma nel deserto. E questo si è realizzato storicamente e letteralmente quando Giovanni Battista predicò il salutare avvento di Dio nel deserto del Giordano, dove appunto si manifestò la salvezza di Dio.
Infatti Cristo e la sua gloria apparvero chiaramente a tutti quando, dopo il suo battesimo, si aprirono i cieli e lo Spirito Santo, scendendo in forma di colomba, si posò su di lui e risuonò la voce del Padre che rendeva testimonianza al Figlio: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo» (Mt 17, 5).
Ma tutto ciò va inteso anche in un senso allegorico. Dio stava per venire in quel deserto, da sempre impervio e inaccessibile, che era l'umanità. Questa infatti era un deserto completamente chiuso alla conoscenza di Dio e sbarrato a ogni giusto e profeta. Quella voce, però, impone di aprire una strada verso di esso al Verbo di Dio; comanda di appianare il terreno accidentato e scosceso che ad esso conduce, perché venendo possa entrarvi: «Preparate la via del Signore» (Ml 3, 1).
Preparazione è l'evangelizzazione del mondo, è la grazia confortatrice. Esse comunicano all'umanità al conoscenza della salvezza di Dio.
«Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme» (Is 40, 9).
Prima si era parlato della voce risuonante nel deserto, ora, con queste espressioni, si fa allusione, in maniera piuttosto pittoresca, agli annunziatori più immediati della venuta di Dio e alla sua venuta stessa. Infatti prima si parla della profezia di Giovanni Battista e poi degli evangelizzatori.
Ma qual è la Sion a cui si riferiscono quelle parole? Certo quella che prima si chiamava Gerusalemme. Anch'essa infatti era un monte, come afferma la Scrittura quando dice: «Il monte Sion, dove hai preso dimora» (Sal 73, 2); e l'Apostolo: «Vi siete accostati al monte di Sion» (Eb 12, 22). Ma in un senso superiore la Sion, che rende nota le venuta di Cristo, è il coro degli apostoli, scelto di mezzo al popolo della circoncisione.
Si, questa, infatti, è la Sion e la Gerusalemme che accolse la salvezza di Dio e che è posta sopra il monte di Dio, è fondata, cioè, sull'unigenito Verbo del Padre. A lei comanda di salire prima su un monte sublime, e di annunziare, poi, la salvezza di Dio.
Di chi è figura, infatti, colui che reca liete notizie se non della schiera degli evangelizzatori? E che cosa significa evangelizzare se non portare a tutti gli uomini, e anzitutto alle città di Giuda, il buon annunzio della venuta di Cristo in terra?

sabato 8 dicembre 2007

Immacolata concezione della Beata Vergine Maria - solennità

Dalla lettera ai Romani di san Paolo, apostolo 5, 12-21

Dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. Fino alla legge infatti c'era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini. E non è accaduto per il dono di grazia come per il peccato di uno solo: il giudizio partì da un solo atto per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l'opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, perché come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore.

domenica 2 dicembre 2007

Domenica 2 dicembre 2007 - prima di avvento

Dal Salmo 121

Quale gioia, quando mi dissero:
«Andremo alla casa del Signore».
E ora i nostri piedi si fermano
alle tue porte, Gerusalemme!

Là salgono insieme le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge di Israele,
per lodare il nome del Signore.
Là sono posti i seggi del giudizio,
i seggi della casa di Davide.

Domandate pace per Gerusalemme:
sia pace a coloro che ti amano,
sia pace sulle tue mura,
sicurezza nei tuoi baluardi.

Per i miei fratelli e i miei amici
io dirò: «Su di te sia pace!».
Per la casa del Signore nostro Dio,
chiederò per te il bene.

mercoledì 28 novembre 2007

All'ipotetico lettore (Margherita Guidacci)

All'Ipotetico Lettore

Ho messo la mia anima fra le tue mani.

Curvale a nido. Essa non vuole altro

che riposare in te.

Ma schiudile se un giorno

la sentirai fuggire. Fa' che siano

allora come foglie e come vento,

assecondando il suo volo.

E sappi che l'affetto nell'addio

non è minore che nell'incontro. Rimane

uguale e sarà eterno. Ma diverse

sono talvolta le vie da percorrere

in obbedienza al destino.

Margherita Guidacci

lunedì 26 novembre 2007

40

Belli, questi anni d'autunno.

domenica 25 novembre 2007

Cristo Re dell'Universo - ultima domenica del tempo liturgico

Dall'opuscolo «La preghiera» di Origène, sacerdote
(Cap. 25; PG 11, 495-499)

Il regno di Dio, secondo la parola del nostro Signore e Salvatore, non viene in modo da attirare l'attenzione e nessuno dirà: Eccolo qui o eccolo là; il regno di Dio è in mezzo a noi (cfr. Lc 16, 21), poiché assai vicina è la sua parola sulla nostra bocca e sul nostro cuore (cfr. Rm 10,8). Perciò, senza dubbio, colui che prega che venga il regno di Dio, prega in realtà che si sviluppi, produca i suoi frutti e giunga al suo compimento quel regno di Dio che egli ha in sé. Dio regna nell'anima dei santi ed essi obbediscono alle leggi spirituali di Dio che in lui abita. Così l'anima del santo diventa proprio come una città ben governata. Nell'anima dei giusti è presente il Padre e col Padre anche Cristo, secondo quell'affermazione: «Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23).
Ma questo regno di Dio, che è in noi, col nostro instancabile procedere giungerà al suo compimento, quando si avvererà ciò che afferma l'Apostolo del Cristo. Quando cioè egli, dopo aver sottomesso tutti i suoi nemici, consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1Cor 15, 24.28). Perciò preghiamo senza stancarci. Facciamolo con una disposizione interiore sublimata e come divinizzata dalla presenza del Verbo. Diciamo al nostro Padre che è in cielo: «Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno» (Mt 6, 9-10). Ricordiamo che il regno di Dio non può accordarsi con il regno del peccato, come non vi è rapporto tra la giustizia e l'iniquità né unione tra la luce e le tenebre né intesa tra Cristo e Beliar (cfr. 2Cor 6, 14-15).
Se vogliamo quindi che Dio regni in noi, in nessun modo «regni il peccato nel nostro corpo mortale» (Rm 6, 12). Mortifichiamo le nostre «membra che appartengono alla terra» (Col 3, 5). Facciamo frutti nello Spirito, perché Dio possa dimorare in noi come in un paradiso spirituale. Regni in noi solo Dio Padre col suo Cristo. Sia in noi Cristo assiso alla destra di quella potenza spirituale che pure noi desideriamo ricevere. Rimanga finché tutti i suoi nemici, che si trovano in noi, diventino «sgabello dei suoi piedi» (Sal 98,5), e così sia allontanato da noi ogni loro dominio, potere ed influsso. Tutto ciò può avvenire in ognuno di noi. Allora, alla fine, «ultima nemica sarà distrutta la morte» (1 Cor 15, 26). Allora Cristo potrà dire anche dentro di noi: «Dov'è o morte il tuo pungiglione? Dov'è o morte la tua vittoria?» (Os 13, 14; 1 Cor 15, 55). Fin d'ora perciò il nostro «corpo corruttibile» si rivesta di santità e di «incorruttibilità; e ciò che è mortale cacci via la morte, si ricopra dell'immortalità» del Padre (1 Cor 15, 54). così regnando Dio in noi, possiamo già godere dei beni della rigenerazione e della risurrezione.

martedì 20 novembre 2007

Il dono dell'accompagnamento spirituale (II): l'accompagnato e l'accompagnatore.

Il carisma ed il ministero dell’“accompagnatore” è di colui che entra in relazione con un “accompagnato” avendo consapevolezza e intenzionalità di fare da guida – restando il Signore l’unico Maestro – e di aiutare la persona che accompagna a trarre fuori da sé quella predisposizione, dono dello Spirito, a divenire – attraverso l’ascolto attento della Parola di Dio all’interno della sua Chiesa – pienamente se stessa, ovvero pienamente immagine e somiglianza di quel Dio Padre che l’ha chiamata alla vita secondo un progetto unico ed irripetibile da realizzare in questa meravigliosa relazione fra la creatura ed il suo Creatore nella Chiesa e nel mondo.
L’accompagnatore entra in gioco, nella relazione con l’accompagnato, con tutto se stesso, un “tutto se stesso” umano e spirituale che può avere molti significati, ma che non può prescindere dalla temperanza, dalla fortezza, dalla prudenza e dalla giustizia, virtù stabilite nel proprio cuore dalla grazia dello Spirito.
L’accompagnatore non è tale per una dote particolare – per una differenza, perché è più probo o più pio etc. –, quanto per la propria risposta, libera e responsabile, alla chiamata dello Spirito nell’assumersi un servizio offerto – entro un cammino di discernimento da lui stesso compiuto e che ne ha fatto emergere la Grazia ed il “carisma” – all’intera comunità: “essere” accompagnatori è – a sua volta – un cammino di maturità umana e spirituale in continuo divenire.
In altri termini, si è accompagnatori solo con una storia nella quale si è riconosciuto Dio artefice e protagonista. E’ la Sapienza – parola biblica dello Spirito provata dall’uomo esistenzialmente – il tracciato entro il quale si muove chiunque accompagni, così che sapienza e cammino alimentino sempre una fede che chiede di essere sempre più accresciuta.
L’accompagnatore è tale in virtù della “legge” che incarna, della “Torah” che impartisce nel suo essere Giobbe, il salmista, od uno dei profeti - Elia, Isaia, Geremia, Amos, Osea, Michea, Giovanni il battista etc. – fino a sentirsi investito del discepolato alla maniera di Gesù che – tramite la nostra mediazione – dal dono della Pentecoste ad oggi continua inesauribilmente a condurre verso il Padre tutta l’umanità.
C’è dunque un “uscire” sia dell’accompagnatore che dell’accompagnato, guidati entrambi da un progetto che è l’intenzione dello Spirito nell’aiutare ad ordinare tutti i frutti germinati dai semi lasciati dal Signore nell’arco di ogni storia personale e che passa instancabilmente un’infinità di volte nell’arco della nostra vita.
L’accompagnatore è “imperfetto”, ma in questa imperfezione – in questo suo essere peccatore – si manifesta l’eccellenza dello Spirito, espressione – in colui che accompagna, quanto in colui che è accompagnato – del “timor di Dio”, segno tangibile dell’autorevole presenza divina, paterna e misericordiosa, che agisce nell’umiltà della sua creatura prediletta.
In ogni accompagnamento è la “persona” – accompagnato/accompagnatore – ad esser messa in discussione ed è in questa dinamica di sempre maggior umiltà che vive l’accompagnatore, in quanto nella medesima dinamica si è anche accompagnati dal medesimo Spirito. Solo così si è davvero servi “distaccati” della Parola, affinché la Parola stessa possa efficacemente essere spada e balsamo per chiunque, trafitto dalla potenza di Dio, sente l’inesauribile Voce dell’Amore.
L’accompagnato/accompagnatore nell’abbattere le sue difese di fronte a Dio – e alla forza del suo Spirito – si trova solo, per cui colui che si lascia guidare dallo Spirito raggiunge la maturità spirituale solo se in costante equilibrio con la crescita umana. Non necessita di essere perfetto, ma di sperimentare – nel suo essere fragile e peccatore – la Grazia del Signore nell’affidarsi continuamente alla Misericordia di Dio, unica guida certa ed indefettibile. E’ nel lasciare al Signore il dominio del cuore – tramite lo Spirito che porta la sua pace e la spada – che è possibile acquietare gli spiriti turbolenti che imperversano nel nostro animo, mettersi al secondo posto, dietro Gesù, e camminare verso la casa del Padre allo stesso modo dei discepoli.
L’accompagnato/accompagnatore è colui che pensa di diventare “adulto” nella fede, nella maturità dello spirito ed in quella umana, facendo come i discepoli di Cristo che lo sono diventati in virtù di una conversione successiva al dono della Pentecoste e per questo nell’avere imparato a diventare bambini in età adulta. L’accompagnato/accompagnatore è colui che fa l’esperienza di una costante conversione. E’ solo così che l’accompagnato/accompagnatore si rende disponibile allo Spirito dono del Padre per mezzo del Figlio e lo rintraccia in tutto se stesso ed in tutto il “se stesso” di chi gli è accanto e di fronte.
L’unica mèta che l’accompagnato/accompagnatore umanamente ambisce di raggiungere è la “guarigione” come il ritorno di quell’armonia perduta che dominava nel giardino di Eden prima del peccato da dove ogni storia personale e comunitaria parte e può sempre ripartire.

Nel Giardino di Eden nessuna creatura è perfetta in se stessa se staccata dal suo Creatore. Nell’abbandono di Dio - ma nascosto ancora dentro al Giardino per farsi ri-cercare continuamente da ogni creatura amata - frutto del peccato da parte dell’uomo, ogni uomo può ancora ascoltare la Voce del Creatore grazie a Gesù, il Cristo, il giardiniere che riconsegna all’uomo – in una continua azione di grazia – una vita piena e spirituale degna, ripulita dal peccato per mezzo della sua gloriosa manifestazione sulla Croce.

L’accompagnato/accompagnatore torna sempre al “principio”, perché è colui che continua a convertire tutto se stesso al Signore – al suo Dio e al suo tutto – ripartendo ogni volta – come nel Vangelo secondo Marco – dalla Galilea, mettendosi definitivamente alla sequela di Gesù, dopo averlo pianto amaramente per l’esperienza del peccato e non più trovato nella tomba vuota illuminata solo dallo Spirito della Resurrezione all’oscuro del tempo e della sola ragione umana.

Salmo 19

Ti ascolti il Signore nel giorno della prova, *
ti protegga il nome del Dio di Giacobbe.
Ti mandi l'aiuto dal suo santuario *
e dall'alto di Sion ti sostenga.

Ricordi tutti i tuoi sacrifici *
e gradisca i tuoi olocausti.
Ti conceda secondo il tuo cuore, *
faccia riuscire ogni tuo progetto.

Esulteremo per la tua vittoria, †
spiegheremo i vessilli in nome del nostro Dio; *
adempia il Signore tutte le tue domande.

Ora so che il Signore salva il suo consacrato; †
gli ha risposto dal suo cielo santo *
con la forza vittoriosa della sua destra.

Chi si vanta dei carri e chi dei cavalli, *
noi siamo forti nel nome del Signore nostro Dio.
Quelli si piegano e cadono, *
ma noi restiamo in piedi e siamo saldi.

Salva il re, o Signore, *
rispondici, quando ti invochiamo.

lunedì 19 novembre 2007

l'esperienza delle nostre ferite, in Cristo

«Il Prologo del Vangelo di Giovanni ci dice che la luce è venuta per risplendere nelle tenebre. Ma se non riconosciamo queste tenebre in noi, se non le abbiamo toccate attraverso l'esperienza delle nostre ferite, la luce non può entrarvi. Ci sono diverse tenebre nell'animo umano, c'è il bisogno di controllare e dominare, di voler controllare tutto con la volontà coltivando una personalità dominante che non sa ascoltare e che cercherà sempre di dominare le situazioni. Sulla via discendente, noi lasciamo che lo Spirito Santo penetri nelle nostre fragilità, nel nostro corpo e nella nostra psiche ferita e a poco a poco facciamo l'esperienza della Risurrezione. Se crediamo di essere perfetti, saremo come il fratello maggiore del figliol prodigo che giudica tutto. Ma il figliol prodigo non giudica perchè ha sperimentato il perdono. Si è lasciato avvolgere dalle braccia si suo padre e si è sentito amare così come era, fin nelle sue ferite e nelle sue fragilità. E al termine di questa via discendente si è rialzato per non giudicare più. Anche la vita in comunità, nelle relazioni è una via discendente. Si crede che tutto sia bello e perfetto e poi si scoprono ingiustizie, mancanza d'ascolto, imperfezioni e si incomincia a dubitare. (…)
Possiamo aprirci o chiuderci, dire sì alla vita e cercare di prenderne il comando oppure dire no e farci governare dalle paure: paura dell'avvenire, paura di non essere amati, paura del fallimento, paura di ciò che gli altri pensano di noi,
paura della sofferenza e della morte. Dire sì, invece, non è il sì ingenuo ed idealista, non è il sì ad un sogno o ad un'illusione. E' un sì al nostro essere profondo, un sì al nostro passato, al nostro corpo, alla nostra famiglia d'origine, un sì alla nostra terra di tempeste, di inverni, di sofferenze, ma anche di giornate chiare e soleggiate, di aria fresca, di acqua che scorre, di occhi di bambini, di canti di uccelli.
La comunità, le relazioni sono il luogo della scoperta di ciò che non si può guardare ed accettare: la propria povertà radicale. Si scopre quanto si è piccoli e poveri. Si fatica da accettare questa povertà e sofferenza. E' così forte nell'animo umano il rifiuto della sofferenza!
La saggezza della via discendente consiste nell’accogliere le nostre povertà, le nostre ferite e quelle degli altri, ci fa scoprire progressivamente il mondo d’angoscia che abbiamo dentro, la nostra durezza, la nostra capacità di fare anche del male. Questa via ci rivela semplicemente che Dio risiede nel cuore della nostra povertà e della nostra fragilità. (…)
Qualche persona di ritorno da Calcutta diceva che non sarebbe mai più tornata perchè aveva visto morire delle persone per strada. Madre Teresa ha detto:"Ho visto delle persone morire per strada. Io resto".
Gesù continua a dire: nelle tue sofferenze, nelle tue tenebre, nel tuo fallimento Io resto. (…)

Si vive da risorti riconoscendo che in Cristo tutto è stato adempiuto. Finché continueremo ad agire come se la salvezza del mondo dipendesse da noi ci mancherà la fede di smuovere le montagne. In Cristo la sofferenza ed il dolore umano sono stati già accettati e sofferti; in Lui la nostra umanità lacerata è stata riconciliata ed attratta nell’intimità del rapporto tra il Padre ed il Figlio. La nostra azione va quindi intesa come una disciplina con la quale rendere visibile ciò che è stato già compiuto. E' un'azione basata sulla fiducia di camminare su un terreno solido anche quando siamo circondati dal caos, dalla confusione, dalla violenza, dall'odio. Ce ne offre un toccante esempio una donna che per molti anni ha vissuto e lavorato nel Burundi. Un giorno fu testimone di una crudele guerra tribale che distrusse tutto quello che lei ed i suoi collaboratori avevano costruito. Molta gente innocente che lei aveva teneramente amato fu massacrata dinanzi ai suoi occhi. Più tardi poteva dire che la consapevolezza che tutta questa sofferenza era stata compiuta in Cristo le aveva impedito di subire un collasso mentale e psicologico. La sua profonda comprensione dell'atto salvifico di Dio le consentì di non andarsene e di rimanere attiva in mezzo ad un'indescrivibile miseria, affrontando la realtà della situazione con occhi ed orecchi aperti. Le sue azioni non miravano solo a ricostruire, e quindi a superare i mali di cui era stata testimone, ma erano un modo per ricordare alla sua gente che Dio non è un Dio di odio e di violenza, ma un Dio di tenerezza e di compassione. Forse solo quelli che hanno sofferto molto possono comprendere che cosa significa dire che Cristo ha sofferto i nostri dolori ed ha compiuto sulla croce la nostra riconciliazione».

(Jean Vanire - Henri J.M.Nouwen)

lunedì 12 novembre 2007

Peccato! ... Anzi, Grazia ...

Mio caro, spero che ti piaccia, se così ti chiamo.
E' vero, l'intimità potrebbe non essere tale per darci e dirci del caro, ma l'intimità del cuore attraversa l'esistenze e supera ogni differenza.

Così, piacciati lo stesso sentirti chiamare in questa dolce maniera.
Non si è mai liberi come quando un uomo impara ad essere liberato dall'amore. E questo grande amore è sempre e comunque Cristo, per noi battezzati.

Ti mando o ti rigiro questo scritto, inoltratomi da una conoscenza avvenuta ad uno dei miei Esercizi Spirituali ignaziani.

Vorrai farli un giorno in libertà ed in responsabilità.
Ciò che libera, fortifica ed intenerisce ...
Un abbraccio ed un bacio sulla fronte.

Tuo F.C.C.

"Oggi sono omosessuale, ma non mi identifico in ciò che è la mia sessualità.
Oggi sono omosessuale, ma libero, perché qualcuno mi ha toccato il cuore attraverso tutta la mia esistenza.

E' stato duro riconoscerlo, ma Lui è sempre stato in me, con me, per me.
Ma il peccato, quell'amore al negativo che ci fa arroccare chiusi in noi stessi, aveva patinato tutta la mia bella esistenza. Così, tutta la mia omosessualità, se così si può dire, è stata toccata sia dal peccato, ma molto di più dall'amore di Cristo!

Oggi sono omosessuale, ma che significa?
Il mio volto è sempre il solito e non mi sembra di essere diverso da me stesso, da quel me stesso amato infinitamente nonostante l'insorgere del peccato.

Peccato, che parola bellissima in Cristo!
Peccato, oggi è una parola che riesco a tenere sulle labbra senza sensi di colpa, ma solo col desiderio di portare tutto a Cristo, anche l'amore più carnale che la mia mente possa partorire ed il mio corpo possa abbracciare ...

Solo Cristo è Signore e solo Lui risiede nel peccato dove può far risplendere la luce meravigliosa dell'amore, oltre ogni nostro dubbio ed oltre ogni nostra manchevolezza come a "noi" è data sperimentare ...

Sì, ma è lì il nostro peccato?
Sì, "noi" abbiamo un peccato specifico, ma non è quello che immaginiamo ...

Così, è giusto dire che come omosessuali sicuramente sperimentiamo un peccato tutto nostro in quell'orientamento che tanto avremmo voluto diverso o forse nascondere, ma ... Ma più scaviamo e più ci apriamo a Cristo, più scopriamo che non è ciò che ci eravamo cuciti addosso il peccato, perché liberati da Cristo dai sensi di colpa - da ciò che come uomini ci eravamo inflitti da soli - finalmente scopriamo tutte le pagine del Vangelo e soltanto nella durezza del cuore l'origine di ogni peccato ... Stolto, Pietro, ed allora, stolto anche io ...

Scopriamo Marco, Matteo, Luca, Giovanni, scopriamo i loro Vangeli, scopriamo la vicinanza di un Dio che si è fatto carne in Gesù per parlarci della sorprendente vita nello Spirito che è bellezza, bontà e verità in questo frammento di carne che noi viviamo nella finitezza dell'esistenza ... La vita acquista luce, il buio è acceso, la carne non muore, ogni amore è restituito a se stesso, purificato, rigenerato ...

Quale amore non potrebbe mai portar a compimento Cristo, Lui il Signore della Storia, della Creazione e della Salvezza? Solo Lui porta a pienezza ogni natura, perché l'uomo sia ciò che il Padre ha sempre voluto che fosse fin dal momento in cui lo Spirito ha soffiato l'amore del Padre e del Figlio, attraverso il Figlio, nella creazione.

Noi siamo rivestiti di Cristo, noi - poveri manchevoli, storpi, zoppi, arrendevoli alle nostre necessità e alle nostre caducità della carne - che sperimentiamo la luce della Grazia che mai prostituisce il peccato con l'Amore od inverte l'Amore accontentandosi del peccato ...

Noi viviamo una vita dello Spirito che è ben più grande di ogni peccato! E' Grazia!

Noi amiamo, è questa la forza di chi si converte a Cristo e non teme il peccato, ma lo vince con Cristo, in Cristo, per Cristo in attesa della pienezza in Lui, nella Chiesa, in quella fraternità di comunione di santi che Lui ha generato donando se stesso sulla Croce ..."

domenica 4 novembre 2007

Chi è il santo? ... Questa è la festa dei santi ...

Da uno scritto di don Michele Do
"Festa di tutti i santi 1 novembre 1993"

«Oggi, festa di tutti i Santi, penso sia un momento alto nella liturgia della chiesa e nella vita del cristiano, anzi direi che se non si giunge a questa comunione dei santi e delle cose sante, sono sterili e vane anche le feste del Natale, le feste della Pasqua; perché questa direi che è il vertice, è la vetta da raggiungere e che viene additata come orizzonte del cristiano. È il bene che fa festa, è il bene che fa comunione: questa è la festa dei santi. Ed è una comunione con la bellezza, con la luce, con le vette, con i vertici della vita. Ẻ un’esperienza vitale oggi, soprattutto dove ci sono altre comunioni, che però non sono comunioni, ma aggregazioni, in questa palude che sta diventando la vita associata. (…)
È la comunione di cui parla Gesù nel suo vangelo: “Là dove due o tre sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. La comunione nella luce e con la luce: senza questa comunione non c’è possibilità di vita, di sentire il divino e di fare l’esperienza di Dio. Quest’alta comunione pone Dio in mezzo a noi, ci fa sentire Dio e ci fa sentire la sua presenza. È difficile sentire Dio se siamo soli.
Nascono allora nella nostra vita quelle amicizie che sono “il sacramento di Dio” e di tutto quello che è alto e divino nella vita: questa è la comunione dei santi e delle cose sante. Alte amicizie, alte comunioni, in cui Dio prende il volto degli amici, prende il nostro volto. Questo è evento sacro.

Chi è il santo?
(…) Il santo è colui che nella sua vita ha cercato in qualche modo di interiorizzare qualche cosa di Dio, di interiorizzare Dio accogliendo l’invito di Gesù: “Siate perfetti, come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli; siate misericordiosi, come misericordioso è il Padre vostro che è nei cieli”. È questa la santità: quando un uomo nella sua vita riesce a interiorizzare qualcosa di Dio e lo lascia trasparire.
L’uomo è il solo sacramento di Dio.
L’uomo quando si è trasfigurato ed ha interiorizzato Dio, è l’unica, sola, alta e grande parola di Dio. Diversamente Dio è silenzioso e muto. Parla attraverso l’uomo trasfigurato.
Questi uomini dicono Dio con la loro vita e con il loro volto. Sono come il roveto ardente nelle nostre notti, nelle nostre oscurità e sul nostro cammino. E dal roveto ardente esce la forza della presenza: queste sono presenze che hanno interiorizzato Dio senza saperlo – perché (come scrive C.Magris) l’aureola i santi la portano dietro sul capo, non se la mettono davanti: la vecchina del tempio di Gerusalemme che depone le sue monetine, furtiva, vergognosa di sé, non sapeva di essere grande. Gesù che l’ha vista, l’ha illuminata.
Di fronte a queste creature umili e grandi, se abbiamo intelligenza e cuore, noi sentiamo l’invito, come davanti al roveto ardente: “scalzati, perché la terra che tu calpesti è sacra”. Ed allora nasce con spontaneità la reverenza, l’inchino. Altrimenti siamo come il branco che calpesta tutto; per questo si cintano le sorgenti pure; si devono cintare, non per segnare una proprietà, ma per proteggere la purezza, per custodire il fuoco sacro.
Vedete come è universale il senso religioso, quello alto: ovunque si trovano questi momenti fondamentali dell’esperienza religiosa, ed allora, reverenti, come gli indù che portando le mani da capo a capo, da cuore a cuore, nell’inchino dicono la parola sacra namaste, diciamo anche noi questa sacra parola: “Saluto reverente il Dio che è in te”.
Questa è la chiesa, la grande chiesa in cui il cristiano, come discepolo di Cristo, sente di dovere mettere radici, radicato nella chiesa come un albero nella sua zolla. Allora l’uomo in questa chiesa ritrova le sue radici divine e le sue vette divine. Sa che è in cammino, nonostante tutta la sua povertà ed il suo travaglio, verso questa divina pienezza, che noi contempliamo oggi raggiunta lassù nei cieli dove Dio è tutto in tutte le cose.
Amo molto la preghiera dell’Angelo:
“Donaci o Signore, un angelo amico
Che ci riveli e ci faccia sentire la tua bontà ed il tuo amore
e ci renda capaci di pietà verso ogni creatura.
Donaci un angelo di comunione con cui poter condividere i doni della vita.
Donaci, o Signore, un angelo buono che custodisca la nostra anima
che vegli sulla nostra vita, che guidi il nostro cammino.
Ci sia egli sempre vicino col il suo volto luminoso
e ci conduca a Te, ai tuoi santi, a coloro che amiamo e ci amano
ed anche a coloro che non ci amano
e facciamo fatica ad amare,
perché l’amore deve vincere tutte le barriere”.
Ecco, è questa comunione alta che diventa il pane per tutti i pellegrini.
Quando un uomo tenta di vivere il vangelo, diventa come Gesù, pane: “il tuo pane, o Signore, sostiene i poveri in cammino”. Questa è amicizia, questa è alta comunione, che diventa pane dell’angelo. (…)
Siamo nella dimensione di Dio, siamo nella dimensione dello Spirito che non conosce lontananza geografica. Si è soli e tuttavia si è in comunione. Allora queste amicizie, questo pane dell’angelo, ci rende capaci, come Elia, di camminare da soli, anche nel deserto.
Questo, penso che sia il monachesimo di cui abbiamo bisogno tutti: questo eterno, universale, essenziale monachesimo. Monachesimo senza voti, senza cinte murarie, senza monasteri. Il monaco vero vive ovunque, disseminato ovunque. Nel cap. 5° della splendida lettera a Diogneto, si legge: “sparsi ovunque”, immersi ovunque. Il monaco è un uomo capace di stare in piedi da solo e di camminare da solo, custodendo intatto dentro di sé tutto un mondo di realtà, di valori sacri e preziosi che non s’hanno da cedere mai. Questo è il monaco, questa è la chiesa fatta di monaci solitari, perché nessuno è capace di comunione come i solitari. E se non siamo capaci di solitudine, le nostre comunioni sono come il giochetto dei bambini che fanno i castelli con le carte: basta un alito e si disgregano, inconsistenti, effimeri. Questo monachesimo rende ognuno capace di attraversare la vita con un’anima intatta, sapendo che l’anima non si ha da cedere mai, che l’anima si dona solo a Dio, ai santi ed alla luce. Si è allora come sentinelle nella notte, ma non si ha più paura della notte. Si veglia in attesa dell’aurora, del regno di Dio; ed a tratti alla domanda: “a che punto è la notte?” si risponde: “Non temete, viene il mattino!”. E si continua il cammino.

I santi, amici, non fanno mai branco.
Dove c’è branco non c’è lo Spirito. Solo quando si esce dal branco si può cominciare a fare comunione. Il compito maggiore è quello di creare tensioni, di creare inquietudini, di creare tormenti. E solo quando si è abitati da una inquietudine, ci si mette alla ricerca di qualcosa; allora è possibile l’evangelizzazione».

venerdì 2 novembre 2007

Io lo so che il mio Redentore è vivo (Gb 19,1.23-27a)

Dal libro di Giobbe

Giobbe allora rispose:

"Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro sul piombo,
per sempre s'incidessero sulla roccia!
Io lo so che il mio Redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
e i miei occhi lo contempleranno non da straniero".

Salmo 146 (145) - Inno al Dio che soccorre

Loda il Signore, anima mia: †
loderò il Signore per tutta la mia vita, *
finché vivo canterò inni al mio Dio.

Non confidate nei potenti, *
in un uomo che non può salvare.
Esala lo spirito e ritorna alla terra; *
in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni.

Beato chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe, *
chi spera nel Signore suo Dio,
creatore del cielo e della terra, *
del mare e di quanto contiene.
Egli è fedele per sempre, †
rende giustizia agli oppressi, *
dà il pane agli affamati.

Il Signore libera i prigionieri, *
il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto, *
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge lo straniero, †
egli sostiene l'orfano e la vedova, *
ma sconvolge le vie degli empi.
Il Signore regna per sempre, *
il tuo Dio, o Sion, per ogni generazione.

giovedì 1 novembre 2007

Sul giorno dei defunti

Gomito a gomito con la morte, scrive un amico caro, cui rimando per la vostra lettura (http://velapomacineclub.blogspot.com/). Al quale ho risposto ...

Tutto ciò che si cerca con l'autenticità della verità umana ha senso e logica. Di fronte alla morte esiste solo il silenzio, l'attesa di una nuova vita, di un bambino che rinasce. Ascoltare l'altro, l'infinitamente altro, si può solo di fronte alla morte. La morte è la morte. La morte è solo la morte anche per un credente. Non c'è niente nella morte.
Eppure, per il credente cristiano o per l'ateo che apprezza la lectio magistralis dei Vangeli, di fronte alla morte ci può essere anche una straziante esondazione che apre all'infinito.
Richiamo il Vangelo secondo Giovanni, colà dove Marta è disperata ed attende l'amico amato - Gesù - perché le è morto il fratello. Lì tutto è strazio perché l'assoluto della vita si è improvvisamente tramutato. Gesù non arriva a rimettere - banalmente - le cose a posto, ma ad essere straziato dall'amore di una donna amica, sorella, amata.
La morte non è niente, ma noi siamo vivi di fronte ad essa e non possiamo immedesimarci in essa. Noi chiediamo la vita, noi desideriamo la vita.
Per noi percepire il termine della nostra vita è uno scandalo.
Di fronte a questo trauma nessuno è potente.
Gesù condivide la nostra stessa storia.
Quella stessa della morte assoluta.
Ricordo nel bellissimo Vangelo secondo Marco che anche le donne arrivando al sepolcro scappano e che quell'apparizione di Gesù - in mentite spoglie - di fronte a loro chiede di riferire a Pietro di tornare in Galilea.
Ebbene, io immagino che Pietro appena sente dirsi quelle parole comprende che solo il Signore, il suo Gesù, quel Gesù amato avrebbe potuto mandargli un tale messaggio. Ed allora corre, affronta la lotta dell'assurdo, arriva alla tomba, entra in essa, si siede in essa e comprende ...
Quello che per noi cristiani è la luce: la resurrezione.
Ma solo dentro la tomba Pietro percepisce l'assurdo, coglie il trauma, il dolore assoluto, l'essenza nera ed assoluta della morte, e comprende che solo Gesù poteva avere pronuciato quelle parole ...
Piange, Pietro, sicuramente piange trafitto d'Amore infinito, incomprensibile ...
Trafitto da un amore che proviene da una tomba oscura dove lui percepisce vita ...
Così, riparte e riparte dalla Galilea, dove la sua storia, la storia dei discepoli era iniziata con Gesù ...
Un nuovo inizio per affrontare il nulla della morte o la potenza di una promessa alla sequela di Gesù.

Un abbraccio, amico mio.

mercoledì 31 ottobre 2007

Alle radici delle opere

Non è un’intelligenza particolare che ha generato le opere dei cristiani nel mondo, quanto il tentativo di imitare lo sguardo commosso del Dio della Misericordia che con Cristo si è piegato sul bisogno dell’uomo. Nessuno di noi avrebbe mai preso l’iniziativa di stare dalla parte di chi soffre se non avesse incontrato sulla propria strada Gesù. Lui, passando vicino, ha preso l’iniziativa.

Si è trattato solo d’«Amore». Un amore, alle radici delle opere, fantasioso, sovrabbondante, affidato al cuore di ciascuno, a quella intelligenza dell’uomo che si esprime in opere, prima di tutto, di giustizia eppoi di carità, perché la Carità – quella piena, quella vera e che sgorga da un cuore trafitto d’amore – non è resa al povero per ciò che gli è già dovuto per giustizia, ma per sovrabbondanza d’amore … Ricorda, infatti, un padre della Chiesa: «rubare è non vestire gli ignudi» …

Noi cristiani, l’abbiamo scoperto strada facendo: è l’«Amore», una modalità attraverso la quale si generano rapporti nuovi. Tutto questo è possibile rintracciarlo nel quotidiano, da chiunque sta attento al grido di giustizia, al bisogno incontrato, alla voce non ascoltata. Da chiunque inventa forme di condivisione …

Questo "convertirsi" può avvenire per chiunque – credente o non credente – perché col proprio passo ciascuno può giungere alle radici delle opere: al Gesù raccontato nei Vangeli. Il Cristo universale, il Cristo splendente, buono e vero per chiunque …

Per un cristiano, questo è un serio impegno culturale: muoversi indefettibilmente verso gli ultimi della Comunità affinché tutti possano riconoscere il Cristo del povero e nel povero, della vedova e nella vedova, dello straniero e nello straniero …

E’ dalla Bibbia che, con urgenza, continua ancora ad emergere la voce che contrappone al «bene immune» - in cui nessuno si contamina con l’altro, ma anzi lo abbandona a se stesso – il «bene comune». «Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino al margine del campo e non raccoglierai ciò che resta da spigolare del tuo raccolto; lo lascerai per il povere e il forestiero» (Lv 23,22). Per la Bibbia la condivisione non umilia, anzi rende il «bene comune» che non s’impone e che discretamente si costruisce, lasciando spazio all’altro, perché l’altro ha spazio nel proprio cuore: «Quando farai la mietitura nel campo e vi dimenticherai il mantello, non tornerai indietro a riprenderlo» (Dt 24.19). Il cuore della legge è la giustizia, la giustizia sociale che ammette un solo presupposto ed una sola conseguenza: l’«Amore».

Il cuore della legge è l’«Amore»: amare Dio ed amare l’uomo è amare l’altro se stesso, l’unico prossimo. Se Dio è nella nube, Cristo ci ha insegnato a rintracciarlo nelle opere con il dono della Fede, della Speranza e della Carità …

lunedì 29 ottobre 2007

Il dono dell'accompagnamento spirituale (I): la maturità umana per una fede matura.

Oggi, nelle nostre comunità, la traduzione di un modello di “accompagnatore spirituale” esigente, che faciliti l’assunzione di responsabilità personali – ecclesiali, civili, sociali e/o politiche – da parte di tutti, è scarsa probabilmente per la difficoltà di dar vita ad un processo educativo di rigenerazione delle nostre stesse comunità cristiane (anche perché questo processo esige lo sviluppo di una persona libera e matura in grado di accettare il rischio delle proprie scelte, senza far appello agli altri, all’interno della comunità stessa). Affinché ci sia un modello di “accompagnatore spirituale” – esigente – ci deve essere infatti, oltre alla persona “accompagnata” che vive responsabilmente ed in libertà la chiamata dello Spirito assumendosi i propri rischi, una “comunità” ecclesialmente matura che vive la fraternità.
Il modello di “accompagnatore spirituale” che in parte oggi si sta delineando nella Chiesa Cattolica è sicuramente un modello più “laico”, ma sicuramente anche più esigente, non solo perché orientato verso l’ideale di perfezione evangelica – il modello resta sempre ed unicamente Gesù –, ma anche perché postula l’abbandono di false certezze, acquisite mediante il semplice adeguamento ai precetti etico-morali – il “tu devi” – o mediante la propria esperienza di vita (ecclesiale, professionale, civile, socio-politica), o al rinvio al principio di autorità (un’autorità ecclesiastica, ad esempio, o una persona carismatica) e comporta che ciascuno diventi “artefice” della propria chiamata e – in senso culturale – del proprio “destino”, sia l’accompagnatore che l’accompagnato, all’interno di una comunità ed a servizio del bene comune dell’intera società.
Non è un caso che nel modo di vivere la Chiesa oggi – entro una società “individualista” – si presenti questo problema: se le nostre comunità sentano la necessità spirituale di promuovere e sostenere questo modello di “accompagnamento” esigente che implica da una parte la fiducia reciproca fra “accompagnatore”, “accompagnato” e “comunità che accompagna”, e dall’altra l’abbandono di schemi precostituiti, di deleghe, di nomine o di affidamenti senza discernimento.
Il cuore di ogni accompagnamento è e resta il discernimento della volontà del Padre per mezzo del Figlio nella grazia dello Spirito come l’unica possibilità di realizzare il proprio progetto esistenziale (antropologico ed escatologico); oggi, da parte di molte persone è sentita viva ed emergente la domanda di una fede matura – non superficiale – non potendo più fare riferimento ai soli modelli tradizionali, consci che nel proprio vissuto quotidiano e nella propria storia “imperfetta” si trovi il senso ed il portato antropologico, ecclesiale e sociale del dono della fede stessa.
Per sposare questo modello di “accompagnamento spirituale” esigente – un carisma ed un ministero specifico a servizio della comunità che può nascere fra persone consacrate o fra laici – in un cammino vocazionale di maturità di fede e di maturità spirituale, che inizia col discernimento per approdare al “come” vivere in pienezza la fede nella Chiesa ed in mezzo al Mondo, è costitutiva la “libertà” della persona, non solo perché sia una condizione previa ed imprescindibile, ma perché la libertà – derivando dall’atto di fede – è a sua volta l’unico atto che genera scelte responsabili. Si può affermare che la “maturità di fede e spirituale” si sviluppa soltanto nella libertà come risposta cosciente ad una chiamata che è dono dello Spirito Santo. Questo significa che un cammino di maturità di fede e spirituale non può essere imposto a nessuno e neppure può essere condizionato da pressioni esterne che mirano ad intaccare l’autonoma capacità decisionale della persona “accompagnata”, ma allo stesso tempo può innescarsi solo sul terreno fertile di una comunità ecclesiale matura e fraterna in cammino perpetuo attraverso Gesù verso il Padre.
Per la persona “accompagnata” l’inizio di un cammino di maturità di fede e spirituale – sostenuto e guidato da chi ha già raggiunto una maggior maturità, l’“accompagnatore”, appunto – presuppone quindi l’esistenza di almeno due condizioni fondamentali che facilitino il discernimento ed il cammino vocazionale stesso: la libertà ed il supporto di una “comunità” che sappia rendere testimonianza ai valori del Vangelo. Su quali condizioni e su quali relazioni, oggi, la persona in ricerca – in un cammino di maturità di fede e spirituale – si apra alla dimensione del mistero, faccia esperienza della gratuità, coltivi il senso dell’attesa, acquisisca la capacità di rischiare proiettandosi verso l’imprevedibile dello Spirito, è difficile rintracciarlo in mancanza di una realtà ecclesiale – la comunità appunto – che la sostenga e la animi, affinché la sua risposta libera alla chiamata dello Spirito sia la più feconda.
Si rischia, appunto, di intendere, di interpretare il discernimento come un percorso soggettivo ed individualistico, una ricerca della realizzazione, piuttosto che il binomio inscindibile persona-Cristo nel sacramento Chiesa-Comunità. Si tende a relativizzare il discernimento ad un atto umano da compiere “una tantum” e non ad inquadrarlo nel cammino stesso di fede, della maturità di fede e spirituale di una persona quanto di una comunità.
Maturità di fede e maturità spirituale, vita ecclesiale piena ed integrata entro una comunità matura e fraterna, responsabilità e libertà individuale si implicano a vicenda, nel senso che la libertà colora di sé tutta l’esperienza di fede e, nello stesso tempo, è nell’esperienza della fede maturata dentro una comunità fraterna che la libertà riceve il suggello dell’amore divino e spalanca all’imprevedibile della Grazia di Dio.
Per questo, segno di una comunità matura e fraterna è anche un terreno ben curato dai fratelli affinché emerga il carisma di quell’umile ministero che è l’“accompagnatore” – il quale per vocazione si pone a servizio della presenza del Risorto in coloro che richiedono e ricercano maturità di fede e spiritualità autentica al servizio dell’uomo nella fraternità ecclesiale – e per questo, per non lasciar cadere i doni dello Spirito nell’infruttuosità del soggettivismo, è necessario vivere una “fraternità” che sia l’espressione dell’autentica esperienza ecclesiale nella “comunità”. Nessun carisma attecchisce su di un terreno sterile – se non per opera di una Grazia sovrabbondante di nostro Signore – o può portare frutti al di fuori del terreno ben disposto e dissodato da Cristo, curato dai fratelli, protetto dalla comunità, fecondato dalla Parola di Dio, irrigato dallo Spirito, sostenuto dai sacramenti della Chiesa. E’ infatti la “fraternità” il segno forte della maturità ecclesiale al di fuori della quale ogni sforzo personale, in un cammino spirituale, è votato all’insuccesso perché mancante del presupposto essenziale per vivere la Carità sulla quale Cristo ha fondato la sua Chiesa: l’Agape fraterno. Aprirsi con fiduciosa docilità allo Spirito – per tutti coloro che si dispongono a discernere i semi del Risorto lasciati nel proprio cuore – implica il sereno affidamento alla Comunità, mentre una Chiesa che non vive nella costante ricerca dell’autentica fraternità – rinnovandosi e convertendosi giorno per giorno al Risorto – viene meno alla missione affidatagli da Cristo per mezzo del dono del Padre nella grazia dello Spirito: testimoniare l’Amore assoluto di Dio.

domenica 28 ottobre 2007

Essere, dover essere, voler essere

Da te -ricco - io appresi povertà,
di piccoli tesori milionaria -
quelli che può vantare una bambina ...

(Emily, 299)

lunedì 22 ottobre 2007

Il bacio non dato

«La vita non è statica, ma estatica. In cammino verso qualcosa che è al di là da sé. L'essere è estasi, è divenire, movimento, diffusione di sé. attrazione. La vita avanza per passioni non per ingiunzioni. E la passione nasce da una bellezza. Acquisire fede è acquisire bellezza del vivere: è bello amare, sposarsi, generare, godere della luce e degli abbracci, gustare l'umile piacere di esistere; è bello essere di Dio ed insieme del mondo; è bello attendere e stare con l'amico perchè tutto va verso un senso luminoso e positivo, nella finitezza e nell'infinito. La vita non è etica, ma estetica. Nel suo senso letterale estetico significa sensibile; il suo contrario non è il brutto, ma – letteralmente – l'anestetico, l'insensibile, l'immobile. Ogni vivente ha una vita affettiva, parte alta e forte della sua identità,necessaria per essere felice. Possiamo negarla ma non eliminarla. La dimensione degli affetti, fondamentale per l'equilibrio della persona, necessaria per vivere (se non amiamo, non viviamo:1 Gv 3,14) e per vivere con gioia, è un autentico luogo teologico: l'amicizia rivela qualcosa di Dio. Ogni vivente nasce come persona appassionata, e quel malinteso spirito religioso che ci spinge a negare le nostre passioni inaridisce le sorgenti della vita e rende molti cristiani predicatori di cose morte. Bisogna non tanto soffocare, ma convertire le passioni; non raggelare ma liberare i desideri per desiderare Dio. Soltanto chi ama la vita è sensibile al richiamo del Vangelo: “Sono venuto perchè abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

- Ami la vita?
- Sì amo la vita
- Allora hai fatto metà del cammino (F.Dostoevskij, I fratelli Karamazov)

Pascal afferma che la caratteristica di un'anima grande e pura è amare con passione, senza quella avarizia di sentimenti, senza quella parsimonia di emozioni con cui gestiamo abitualmente le nostre relazioni. La santità non consiste nella moderazione dei sentimenti. Dov'è mai questa moderazione nella Bibbia? (D. Bonhoeffer).

Se Dio è amore, lo si trova solo amando, non attraverso formule. Camminando attraverso l'umano si troverà Dio. Le nostre relazioni sono l'invenzione con cui Dio ci ama e ci insegna l'amore … L'amicizia, lo stare con l'amico o l'amica, è una rivelazione dell'innocenza e dell'eterna infanzia di Dio. Questa infanzia così facile al sorriso, al bacio, sempre pronta al gioco. Età incantata che non deve produrre o lavorare per sentirsi vera, ma che ha gioia; che non conosce l'ansia, talvolta la tortura, di perseguire un senso che trascende, una vita fatta di scopi. Infanzia: innocente preda di amori. Infanzia spirituale: paga di sè, del proprio dono, del miracolo di esistere insieme «L'amicizia percorre danzando la terra, recando a noi tutti l'appello a destarci ed a dire l'uno all'altro: felice!» (Epicuro).

Stare con l'amico è l'esperienza che da sola basta a riscattare i giorni oscuri, a redimere ore vuote e amare. “Gesù ne scelse dodici perchè stessero con Lui” (Mc 3,14) e poi, solo dopo, solo dopo l'esperienza di aver fatto casa insieme, dopo la costruzione di un legame che è la verità dell'uomo, li manda a predicare. Ma A DUE A DUE. Senza cose, ma non senza un amico. Un bastone per appoggiarvi la stanchezza, un amico per appoggiarvi il cuore …

L'amicizia è una risposta al desiderio che ti fa incontrare l'assoluto di ciascuno»

(tratto da “I baci non dati” di Ermes Ronchi)

domenica 14 ottobre 2007

Fede, sessualità e ... Tra fragilità e peccato: la Grazia preveniente

Fede, sessualità e ... il contorno di tutte le relazioni. Un trinomio inscindibile, disarmante ogni visione individualistica; un trinomio mal gestibile – sicuramente, anzi umanamente difficile – eppure, anche su questo risplende la luce del Cristo, perché in tutto il mondo creato pulsa la vita del Cristo.

Affrancarsi da una visione morale della fede e della sessualità, così come di una visione onanista, edonista, individualista, consumista, significa incamminarsi sulla strada della relazionalità dove acquista significato parlare di fede, sessualità e ...

Abbandonare la sessualità, significa mortificare la persona e lasciarla in un lato oscuro, anziché farla partecipe della gloria del Risorto. D’altra parte, abbandonare la fede, significa glorificare la vita affettiva, sentimentale e sessuale vedendo in queste energie vitali l’unico istinto capace di resistere alla morte. Scinderle, allora, significa dimenticare un Dio umile e presente fin nelle origini della nostra specie, fin dagli albori della nostra nascita; scinderle significa non rintracciare il significato personale di una chiamata e di un cammino.

Dunque, fede e sessualità, già un binomio arduo e difficile, ma comprensibile ed ostinatamente da tenere vivo e vicino, vivo ed efficace.

Il passo ulteriore, allora, è sicuramente non scindere il binomio dalla relazionalità. In questa visione ha dunque molta rilevanza parlare di “Fede, sessualità e ... famiglia, bambini, giovani, anziani, malati”, ad esempio, perché in ogni età della vita, ciò che noi sentiamo scorrere come un fermento e come un tormento, la sessualità appunto, ci appartiene e non ci abbandona, e costantemente ci interpella tramite l’attrazione, chiedendoci di aprire al nuovo, al diverso, all’indesiderato, e chiedendoci di usare la ragione ed il cuore per capire quali scelte operare ...

Però, in quella ragione ed in quel cuore, noi credenti vediamo anche la luce della fede, per cui parlare di fede senza la sessualità, sarebbe come idealizzare; mentre parlare di sessualità senza il discernimento dell’oltre alla vita terrena, sarebbe parlare di un uomo diviso a metà e mancante di una sua parte. Infine, parlare di fede e di sessualità senza interpellare tutte le nostre relazioni, sarebbe mitizzare sia la fede che tutti gli innumerevoli - presunti o tali - generi sessuali che culturalmente oggi sono presenti.

Fede, sessualità e rapporti/relazioni ci interpellano inesorabilmente, inscindibilmente, instancabilmente assieme perché scaturiscono dall’intimo del nostro esistere, dall’enigma e dal mistero che ci portiamo dentro come un progetto che attende di essere illuminato per perseguire il suo obiettivo.

Enigma e mistero, un progetto che chiede vigilanza e presenza, autenticità e conversione, natura e grazia. Forse sta qui la scaturigine di questo trinomio inscindibile: “fede, sessualità e ...”, di questo progetto che instilla nei pensieri – fin dal momento che abbiamo coscienza di vivere – la ricerca della libertà, della giustizia, dell’amore, della felicità ...

Le persone non sono tali in quanto individui, ma la loro – nostra – identità si manifesta e si realizza – sempre più – nel corso del tempo nelle relazioni, in rapporto a qualcuno (non a qualcosa di inanimato: ad una idea, ad una necessità/bisogno, ad un desiderio, ad una passione).

Tant’è vero che l’attrazione ci obbliga ad uscire allo scoperto, ad ammettere la nostra fragilità, ad ammettere – per la nostra pienezza – l’altro, l’altra persona, non solo me stesso.

Quindi non ha senso parlare di “orientamenti” o di “identità” se non riusciamo ad allargare la discussione – da un mondo ristretto, ma necessario quale quello scientifico con le sue ricerche e scoperte in campo genetico, biologico, psicologico, sociologico etc. – ad un modo di vedere la persona nel suo tessuto relazionale, in cui fede, sessualità ed ogni rapporto contribuiscono alla sua crescita, ai suoi orientamenti, alla sua identità e al suo progetto di vita, appunto.

Noi siamo chiamati a liberare le persone affinché - nell’incontro salvifico col Risorto - scoprano la loro vera vocazione, la pienezza della loro realizzazione; siamo chiamati a sostenere il cammino di ciascuno affinché enigma e mistero si svelino e si rivelino in ciascun progetto di vita in cui Cristo è fonte e volto autentico, non obbrobio od oppressione.

Tutto questo rientra nella fragilità delle persone e delle posizioni culturali, tutto questo richiama il senso del peccato – non della colpa o del senso di colpa – e ci mostra il candore e lo splendore dei limiti umani nel saper affrontare qualcosa che è ben più grande di noi: la fede, appunto, così come la forza rivoluzionaria della sessualità; o se vogliamo l’enigma ed il mistero.

Liberare dai sensi di colpa, dagli inutili sentimenti che opprimono, è il primo portato della Grazia preveniente, del soffio spirituale di un Dio misericordioso, tenero e compassionevole, che è presso di noi fin dagli albori.

La generosità di ogni relazione ci induce a meditare, a farci umili, a lodare.
Se non faremo così lasceremo tutta la nostra vita condotta dagli istinti, ma gli istinti non rivelano né l’enigma, né il mistero, né tanto meno riescono ad oltrepassare la morte o a dare un senso al nostro impegno nella società o verso gli altri.

Affrontare il trinomio inscindibile aiuta, dunque, anche ad affrontare altri campi del vivere umano, come ad esempio “fede, sessualità e ... professione”, “fede, sessualità e ... politica”, oppure “fede, sessualità e ... omosessualità”, “fede, sessualità e ... transessualità”, “fede, sessualità e ... riscoperta del creato”. Ma aiuta anche ad affrontare i campi del vivere del credente, del cristiano, del campo ecclesiale: “fede, sessualità e ... comunità”; “fede, sessualità e ... pastorale” non sono oggi aspetti né secondari, né da sottovalutare.

In fin dei conti il trinomio indissolubile, che lega fede, sessualità e relazionalità, ci impegna a riflettere tra fedeltà e discernimento della chiamata - che ciascuno di noi riconosce nel suo essere enigma e mistero - per il bene comune; una chiamata che per un cristiano è voce di Cristo, ma che per un non credente è comunque profonda ricerca di senso.

Anche la continenza – ovvero la castità, che non è mai l’assenza di sessualità – in tale ragionamento, allora, acquista un significato profondo, poco moraleggiante e ricco di senso, perché apre le porte a vivere la fede, la sessualità e ... la Carità in maniera originale, creativa e mai castrante.

Portare luce – tramite la fede – significa rintracciare un senso vero ed autentico – nelle cose ordinarie presenti in natura – e riordinare, esaltare le proprie potenzialità per il bene comune, che è sempre quello di ciascuno e di tutti assieme, al di là di ogni tabù.

lunedì 8 ottobre 2007

Antologia di Spoon River - di Edgar Lee Master - e San Miniato al monte

Ieri, domenica 7 ottobre, a San Miniato al Monte - nel bel cimitero monumentale delle porte sante - 37 attori, ciascuno vicino ad una bara, hanno recitato a ciclo continuo 37 poesie tratte dall'antologia di Spoon River ...
Eccone alcune:

33. Sarah Brown

Maurice ... Maurice, non piangere, non sono qui sotto il pino.
L'aria mite della primavera sussurra nell'erba dolce,
le stelle scintillano, il caprimulgo chiama,
ma tu ti rattristi, mentre la mia anima è rapita
nel Nirvana beato della luce eterna!
Va da quell'anima gentile di mio marito,
che rimugina su quello che lui chiama il nostro colpevole amore: -
digli che il mio amore per te, non meno del mio amore per lui,
ha forgiato il mio destino - che attraverso la carne
ho raggiunto lo spirito, e attraverso lo spirito, pace.
Non ci sono matrimoni in cielo,
ma c'è amore.

80. Francis Turner

Da ragazzo
non potevo correre né giocare.
Da uomo potei solo sorseggiare dalla coppa,
non bere-
perché dopo la scarlattina m’era rimasto il cuore malato.
Eppure riposo qui
consolato da un segreto che solo Mary conosce:
c’è un giardino di acacie,
di catalpe e di pergole dolci di viti-
là, quel pomeriggio di giugno
a fianco di Mary-
mentre la baciavo con l’anima sulle labbra
l’anima d’un tratto volò via.

207. Lucinda Matlock

Andavo a ballare a Chandlerville,
e giocavo a carte a Winchester.
Una volta ci scambiammo i cavalieri
al ritorno in carrozza sotto la luna di giugno,
e così conobbi Davis.
Ci sposammo e vivemmo insieme settant’anni,
divertendoci, lavorando, crescendo dodici figli,
otto dei quali ci morirono,
prima che arrivassi a sessant’anni.
Filavo, tessevo, tenevo in ordine la casa, assistevo i malati,
curavo il giardino, e alla festa
andavo a zonzo per i campi dove cantavano le allodole,
e lungo lo Spoon raccogliendo molte conchiglie,
e molti fiori ed erbe medicinali—
gridando alle colline boscose, cantando alle verdi vallate.
A novantasei anni avevo vissuto abbastanza, ecco tutto,
e passai a un dolce riposo.
Cos’è questa storia di dolori e stanchezza,
e ira, scontento e speranze cadute?
Figli e figlie degeneri,
la vita è troppo forte per voi—
ci vuole vita per amare la vita.

213. Marie Bateson

Vedete la mano scolpita
con l’indice puntato al cielo.
E’ quella la direzione, non c’è dubbio.
Ma come si fa a seguirla?
E’ giusto astenersi dall’assassinio e dalla lussuria,
perdonare, fare il bene, adorare Dio
e non le sue immagini scolpite.
Ma in fondo questi sono mezzi esteriori
con cui soprattutto si fa del bene a se stessi.
Il nocciolo della questione è la libertà,
è la luce, la purezza—
di più non so dire,
trovate voi il fine o mancatelo, secondo la vostra visione.

222. Faith Matheny

Lì per lì non saprete cosa vogliono dire,
e forse non lo saprete mai,
e forse non ve lo diremo mai:
questi bagliori improvvisi dell’anima,
come folgori guizzanti su candide nubi
a mezzanotte quando c’è la luna piena.
Arrivano in momenti di solitudine, o forse
siete con un amico, e all’improvviso
cade un silenzio nel discorso, e i suoi occhi
senza un fremito vi guardano ardenti:
avete visto insieme il segreto,
egli lo vede in voi, e voi in lui.
E restate là trepidanti nel timore che il mistero
vi si pari davanti e vi colpisca a morte
con un fulgore simile al sole.
Siate coraggiose, anime che avete simili visioni!
Mentre il vostro corpo è vivo, come il mio è morto,
voi catturate un piccolo alito dell’etere
riservato a Dio stesso.