venerdì 27 novembre 2009

Da PENSIERI IN RIVA AL MARE (1957) di Margherita Guidacci

Poesia XIV

Ormai sul punto di partire, siedo
Qui per l'ultima volta, sul tuo orlo,
Carezzando la sabbia scura, dove
Spesso impressi il mio corpo, per vedere
Poi quella forma vana scompigliata
Da te e dal vento, finché ritornassero
Dune perfette. Penso come vario
Tu mi apparisti, per colore, voce
E moto: il verde-azzurro e la sommessa
Melodia della tua serentià
O il bianco della furia, quando folle
Ti avventavi agli scogli e li colpivi.
Con mille irate lame. Quale immagine
Più duratura serberò di te
Quando sarò lontana e penserò
A questi giorni? Forse come oggi
Ti rivedrò nel mio ricordo: in questa
Tua grigia ambiguità che sa celare
Ugualmente la pace e la minaccia;
Steso nell'inscrutabile indolenza
Sotto un arco di nubi e l'orizzonte
Velato, dove appena s'indovina,
Come nebbia più spessa, la Gorgona.
Così ti rivedrò, con i pensieri
Ch'ebbero tanti sopra le tue rive
Prima di me.
E che me pure come tutti gli altri
Turbarono. Ed ancora mi parrà
D'esserti accanto, aspirerò il tuo aroma
Denso e amaro, di nuovo fisserò
Il tuo infinito, ed un trasalimento
Avrò al contatto delicato e arido
Della sabbia con le mie dita, sabbia con sabbia.

venerdì 9 ottobre 2009

Libertà nel linguaggio della Bibbia

Dietrich Bonhoeffer
DBW 3,58s. [trad. it. Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, in ODB 8, Queriniana, Brescia 2002, 54].


Infatti, nel linguaggio biblico la libertà non è qualcosa che l'uomo abbia per sé, ma qualcosa che ha per gli altri. Nessun uomo è libero 'in sé', cioè come se fosse nel vuoto, al modo in cui può essere in sé musicalmente dotato, o intelligente, o cieco. La libertà non è una qualità dell'uomo, non è una capacità che possa essere scoperta in lui, per quanto nel profondo, ma è una disposizione, un modo di essere. Chi sottopone a esame l'uomo alla ricerca della libertà, non ne trova traccia. Perché? Perché la libertà non è una qualità che possa essere scoperta, o un possesso, qualcosa di dato, di oggettivo, neppure una forma per un dato, ma è un rapporto e niente altro. E' in effetti un rapporto tra due. Essere liberto significa 'essere-libero-per-l'altro', perché l'altro mi ha legato a sé. Solo in rapporto all'altro sono libero. [...] E' lo stesso messaggio evangelico a dirci che la libertà di Dio si è legata a noi, che la sua libera grazia solo in noi trova la propria consistenza reale, che Dio non vuol essere libero per sé, ma per l'uomo.

Brano tratto da "Voglio vivere questi giorni con voi", a cura di Manfred Weber, Queriniana, Brescia 2005.

giovedì 8 ottobre 2009

Malachia 3, 13-18

Duri sono i vostri discorsi contro di me - dice il Signore - e voi andate dicendo: "Che abbiamo contro di te?".
Avete affermato: "È inutile servire Dio: che vantaggio abbiamo ricevuto dall'aver osservato i suoi comandamenti o dall'aver camminato in lutto davanti al Signore degli eserciti?
Dobbiamo invece proclamare beati i superbi che, pur facendo il male, si moltiplicano e, pur provocando Dio, restano impuniti".
Allora parlarono tra di loro i timorati di Dio. Il Signore porse l'orecchio e li ascoltò: un libro di memorie fu scritto davanti a lui per coloro che lo temono e che onorano il suo nome.
Essi diverranno - dice il Signore degli eserciti - mia proprietà nel giorno che io preparo. Avrò compassione di loro come il padre ha compassione del figlio che lo serve.
Voi allora vi convertirete e vedrete la differenza fra il giusto e l'empio, fra chi serve Dio e chi non lo serve.

mercoledì 7 ottobre 2009

Vangelo secondo Luca 11, 1-4

Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli".
Ed egli disse loro: "Quando pregate, dite:
Padre, sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdonaci i nostri peccati,
perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore,
e non ci indurre in tentazione".

giovedì 1 ottobre 2009

Emily, 130

Son questi i giorni in cui gli uccelli ritornano -
solo pochi - uno o due -
per dare uno sguardo indietro.

Sono questi i giorni in cui i cieli riprendono
i vecchi sofismi di giugno -
un errore blu e oro.

O frode che non inganna l'ape -
la tua plausibilità
quasi mi induce a credere.

Finchè fili di semi portano testimonianza
e piano attraverso l'aria alterata
si affretta una timida figlia.

O sacramento dei giorni d'estate,
o ultima comunione nell'aria velata -
concedi a una bambina di unirsi.

Che riceva i tuoi emblemi sacri -
che prenda il tuo pane consacrato
e il tuo vino immortale!

mercoledì 16 settembre 2009

Il giuramento e la menzogna - Dire la verità

Dietrich Bonhoeffer
DBW 4,130s. [trad. it. Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, in ODB 8, Queriniana, Brescia 2002, 126s].

Che cos'è il giuramento (Mt 5,33-37)? E' il chiamare pubblicamente Dio a testimonedi un'affermazione che faccio su qualcosa del passato, del presente o del futuro. [...] Il giuramento è la prova della menzogna del mondo. Se l'uomo non potesse mentire, non sarebbe necessario alcun giuramento. Dunque il giuramento è un baluardo contro la menzogna. Ma appunto per questo esso contemporaneamente la incrementa; infatti, dove c'è solo il giuramento a garantire una veracità definitiva, non si fa che dare spazio alla menzogna nella vita, le si riconosce un certo diritto all'esistenza. La legge dell'Antico Testamento rifiuta la menzogna ricorrendo al giuramento, Gesù invece rifiuta la menzogna vietando il giuramento. [...]
Il vostro parlare sia sì, sì, no, no. Con questo la parola dei discepoli non è affatto sottratta alla responsabilità al cospetto di Dio onniscente. Anzi, proprio il fatto di non menzionare esplicitamente il nome di Dio pone semplicemente ogni parola del discepolo alla presenza indiscussa di Dio onniscente. Poiché non esiste parola alcuna che non sia pronunciata al cospetto di Dio, il discepolo di Gesù non deve giurare. Ogni sua parola deve essere solo verità, così da non aver bisogno di conferma con il giuramento. Esso getta, infatti, l'ombra del dubbio su tutte le altre parole.

DBW 16,619,621s. [trad. it. Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, in ODB 8, Queriniana, Brescia 2002].

Dal momento in cui impariamo a parlare, ci viene insegnato che le nostre parole devono essere veritiere. Che cosa significa? che cosa significa 'dire la verità'? [...]
'Dire la verità' non è soltanto una questionedi convinzione,ma anche di esatta valutazione e di seria riflessione sulla situazione reale. Quanto più varie sono le condizioni di vita di un uomo, tanto maggiore sarà per lui la responsabilità e la difficoltà di 'dire la verità'. [...] Bisogna dunque imparare a dire la verità. Questo suonerà scandaloso per chi pensa che sia sufficiente un atteggiamento morale irreprensibile e che il resto sia un gioca da bambino. Ma non è possibile nemmeno una volta disgiungere l'etica dalla realtà e per questo una sempre migliore conoscenza della realtà è parte integrante dell'azione etica. Ma nel caso in esame l'azione consiste in parole. Bisogna esprimere il reale in parole. In ciò consiste appunto il parlare veritiero. Ma allora si pone inevitabilmente il problema del 'come' parlare. Si tratta di trovare caso per caso la 'parola giusta'. E' questione di uno sforzo lungo, serio e sempre crescente basato sull'esperienza e la conoscenza della realtà.

Brani tratti da "Voglio vivere questi giorni con voi", a cura di Manfred Weber, Queriniana, Brescia 2005.

domenica 9 agosto 2009

Emily, 257

" La felicità è come la brevità -
o ad essa proporzionale,
direbbero le scuole -
il modo dell'arcobaleno -
Un velo
colorato, spiegato dopo la pioggia,
avrebbe la stessa chiarezza
non fosse la fuggevolezza -
che è alimento -

"Potesse durare"
chiedevo all'Oriente
quando la striscia curva
accendeva il mio infantile
firmamento -
e io, dalla gioia,
presi gli arcobaleni per cose usuali,
e i cieli vuoti
per eccezionali -

Così pure le vite -
così pure le farfalle -
ritenute magiche - per la paura
che si sottraggano alla vista -
e arricchiscano latitudini lontane -
qualche mattina inaspettata -
la nostra parte - nel creato -
conclusa -


Emily Dickinson, 257

sabato 25 luglio 2009

Le amnesie delle politche migratorie

di Valerio Onida
Il Sole 24ore, 20 luglio 2009

La prima impressione, di fron¬te alle norme del pacchetto sicurezza dedicate agli immigrati, e alla successiva proposta di regolarizzazione di badanti e colla¬boratori familiari, è quella di un at¬teggiamento schizofrenico del legislatore. Il 15 luglio viene promul¬gata la legge che, fra l'altro, intro¬duce il nuovo reato di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato», "criminalizzando" tutti gli stranieri non in regola con il permesso di soggiorno. Non è passato nemmeno un giorno, ed ecco il Governo promuovere in Parlamento un emendamento che sospende di fatto l'applicazione del nuovo reato nei confronti di ba¬danti e colf, fino al 30 settembre o fino all'eventuale rigetto della do¬manda di regolarizzazione (salvo però tornare ad applicarlo in caso di mancata regolarizzazione: col che potrebbe profilarsi una sorta di autodenuncia per coloro le cui domande saranno respinte).
Ce ne sarebbe abbastanza per constatare quanto siano fondati i rilievi sull'improprio modo di legi¬ferare del Parlamento, mossi dal Capo dello Stato (senza però effet¬ti giuridici di sorta) nella lettera in¬viata al Presidente del Consiglio.
Ma è forse più interessante do¬mandarsi quali siano, e se siano da condividere, gli indirizzi del Go¬verno e della maggioranza in tema di politiche migratorie. I movi¬menti migratori sono, come è no¬to, un fenomeno di massa non evi¬tabile, collegato a fattori e realtà propri del nostro tempo e del no¬stro mondo globalizzato.
La Costituzione (scritta in un'epoca in cui erano gli italiani a emigrare) si limita a stabilire che la Repubblica «riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero» (articolo 35). Quanto agli stranieri, riconosce il diritto di asilo a co¬loro cui sia impedito nel loro pa¬ese l'esercizio delle libertà de¬mocratiche (articolo io). Ma la libertà di emigrazione è espres¬samente riconosciuta a «ogni in¬dividuo» dall'articolo 13 della Dichiarazione universale dei di¬ritti dell'uomo, e riguarda dun¬que anche chi nel nostro paese viene o vuole venire, non solo chi vuole andarsene.
Qual è dunque la politica dell'Italia riguardo a questo fe¬nomeno? In realtà il nostro pae¬se non si è mai dato una seria ed efficace politica dell'immigra¬zione. Consideriamo un solo ele¬mento: chi entra in Italia (legal¬mente o illegalmente), salva la ristretta minoranza che lo fa per darsi ad attività magari lucrose ma illecite, è alla ricerca di un lavoro per assicurare a sé e alla fa¬miglia mezzi di sostentamento, e delle correlative condizioni di vita (alloggio, servizi). È dun¬que determinante, tanto più per un paese come il nostro in cui vi è un'offerta di lavoro che rimar¬rebbe altrimenti insoddisfatta (non solo per badanti e colf), consentire e favorire l'accesso degli immigrati al lavoro. Mala nostra legislazione richiede, per consentire tale accesso, che lo straniero sia munito di un per¬messo di soggiorno che abiliti al lavoro medesimo; tuttavia la concessione di un tale permes¬so è a sua volta subordinata alla dimostrazione della disponibili¬tà del lavoro.
È un serpente che si morde la coda: ed ecco l'ipocrisia di "quo¬te" annuali di ingresso per gli stranieri, formalmente destina¬te a soddisfare richieste di perso¬ne residenti all'estero che voglio¬no immigrare, e che di fatto ven¬gono usate invece per persone che già si trovano nel nostro ter¬ritorio, regolarmente o irregolar¬mente. D'altra parte, qual è il da¬tore di lavoro (famiglia o impren¬ditore) che assume il lavoratore a 5.ooo chilometri di distanza, senza conoscerlo? Eppure la no¬stra legge non prevede la possibi¬lità di soggiornare legalmente alla ricerca di un lavoro: l'istituto dell'ingresso garantito da uno sponsor, per inserimento nel mercato del lavoro, introdotto nel 1998, venne abolito dalla leg¬ge Bossi Fini del 2002. E sarebbe interessante sapere quante e quali siano (temo ben poche) le attività di formazione professio¬nale nei paesi di origine, finalizzate all’«inserimento mirato» nei settori produttivi italiani, ef¬fettivamente realizzate secondo la previsione di legge che ha so¬stituito quella degli sponsor.
Per converso, le frequenti mo¬difiche legislative degli ultimi anni sono state tutte volte, co¬me quelle del "pacchetto sicurezza", a "indurire" il trattamen¬to riservato agli stranieri, in un'ottica che vede nell'immigra¬to quasi solo un pericolo per la sicurezza pubblica. E se ora si re¬golarizzano badanti e colf, non è per una resipiscenza, ma solo per l'egoistico timore di privare le famiglie di un sostegno ad es¬se necessario. A loro volta le po¬litiche locali assai spesso sono andate nella direzione di discri¬minare, non di rado illegittima¬mente, nell'accesso ai servizi pubblici e alle prestazioni socia¬li, e nell'esercizio di diritti ele¬mentari come la libertà religio¬sa, gli stessi immigrati regolari, visti come sgraditi "concorren¬ti" degli italiani o come minac¬cia per la nostra "identità".
Non ultima, c'è la questione della partecipazione degli stranieri alla vita pubblica. Fin dal 1992 esiste una convenzione del Consiglio d'Europa in base alla quale gli Stati aderenti si impe¬gnano, fra l'altro, a riconoscere agli stranieri regolarmente resi¬denti da cinque anni l'elettorato attivo e passivo nelle elezioni lo¬cali: ebbene, l'Italia non aderi¬sce a questa parte della conven¬zione, e dunque nelle nostre cit¬tà centinaia di migliaia di stra¬nieri che vivono, lavorano, paga¬no le tasse e usano i servizi loca¬li sono esclusi dall'esercizio dell'elementare diritto di parte¬cipare alla scelta degli ammini¬stratori: con buona pace dell'idea stessa di democrazia.

domenica 19 luglio 2009

Cristo, il Messia mite che gli ebrei non riconobbero

di Giovanni Reale
intervento che si è tenuto il 5 luglio al Teatro Dal Verme, a Milano.
Alla serata, dal titolo: «Il dialogo invisibile che esiste»,
nel quadro del Festival «La Milanesiana - Letteratura Musica Cinema» curato da Elisabetta Sgarbi,
hanno partecipato Elie Wiesel, Alain Elkann, Tahar Ben Jelloun, monsignor Rino Fisichella e la cantante francese Anne Ducros.

Il Cristianesimo non è pensabile al di fuori dell'Ebraismo. La Legge di Mosè rimane, per Cristo, volontà e parola di Dio, e quindi sacrale. E ha detto questo senza mezzi termini. In Matteo ( 5, 17- 18) si legge: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento: in verità vi dico, finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà della Legge neppure uno iota o un segno, senza che tutto sia compiuto». Dunque, Cristo non abolisce la Legge e i Profeti. Però proprio con Lui i Profeti cessano di essere, in quanto con Lui si era realizzato ciò che ciò che essi avevano preannunciato. In Luca ( 16, 16) si precisa: «La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora in poi viene annunciato il regno di Dio». Pertanto, le prove che Cristo sia figlio di Dio in primo luogo sono le profezie che sono durate per lungo tempo, e che nessun'altra religione ha avuto; in secondo luogo, dipendono dal fatto che tali profezie si siano verificate, perfino nei dettagli. Per quanto riguarda il rapporto del Cristianesimo con l'Ebraismo, è da tenere ben presente il fatto che l'ultimo profeta di Cristo è stato proprio Giovanni Battista, che non solo lo ha previsto, ma lo ha indicato a dito. Dopo la venuta di Cristo non ci sono più stati profeti in terra di Israele. E questo costituisce un dato di fatto veramente incontrovertibile. Pascal scriveva: « Per provare Gesù Cristo abbiamo le profezie, che sono prove solide e tangibili. Ed essendosi queste profezie avverate, ed essendo state provate come veritiere dal verificarsi dell'evento, fondano la certezza di questa verità e, pertanto la prova della divinità di Gesù Cristo » ( n. 730). E ancora: «Quando un solo uomo avesse composto un libro di predizioni su Gesù Cristo, nei riguardi del tempo e della maniera, e Gesù Cristo fosse venuto conformemente a tali profezie, ciò avrebbe una forza infinita. Ma qui c'è di più. È un seguito di uomini, per la durata di quattromila anni, che costantemente senza variazioni sorgono uno dopo l'altro a predire lo stesso avvenimento. È tutto un popolo che lo annuncia, e che esiste da quattromila anni per rendere solidamente testimonianza delle promesse ricevute e da cui essi non possono essere distolti, quali che siano le minacce e persecuzioni che loro vengono fatte: questo è ben altrimenti degno di considerazione» ( n. 728). Ciò che gli ebrei non hanno accettato nella figura di Cristo è proprio la sua umiltà, la sua kénosis, ossia il suo abbassamento, che è, invece, ciò che di più elevato c'è in Lui. Kierkegaard scriveva: « Chi è l'invitante? Gesù Cristo. Quale Gesù Cristo? Il Gesù Cristo che siede nella gloria alla destra del Padre? No. Dal trono della gloria egli non ha pronunciato parola alcuna. Dunque, nelle parole d'invito Gesù Cristo le ha pronunciate nel suo abbassamento, nella sua condizione di abbassamento». Ma è proprio la miseria dell'uomo assunta su di sé che Cristo vuole riscattare e sacralizzare, ossia tutte le sofferenze dell'uomo e la stessa morte. Albert Camus, nel suo libro Uomo in rivolta , ha espresso questo concetto in modo assai forte: «Cristo è venuto a risolvere due problemi principali, il male e la morte [...]. La sua soluzione è consistita innanzi tutto nell'assumerli in sé. Anche il dio uomo soffre, con pazienza. Né male né morte gli sono più assolutamente imputabili, perché è straziato e muore. La notte del Golgota ha tanta importanza nella storia degli uomini soltanto perché in quelle tenebre la divinità, abbandonando ostensibilmente i suoi privilegi tradizionali, ha vissuto fino in fondo, disperazione compresa, l'angoscia della morte. Si spiega così il Lamma sabactani e il dubbio tremendo del Cristo in agonia. L'agonia sarebbe lieve se fosse sostenuta dall'eterna speranza. Per essere uomo il dio deve disperare». Ed è proprio la morte in croce che per gli Ebrei è inaccettabile. Già fra coloro che lo videro sulla croce alcuni espressero tale convinzione. Matteo ( 27, 39- 43) riferisce: «E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: ' tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni', salva te stesso! Se tu sei figlio di Dio, scendi dalla croce! Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: ' Ha salvato altri, non può salvare se stesso. È il re d'Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti, Sono figlio di Dio'». Una prima risposta assai significativa data a tali accuse che richiamiamo è quella di Agostino: «Dice magari qualcuno: se era in lui questo potere, perché allora, quando i Giudei lo insultarono mentre era appeso alla croce e dissero: Se è Figlio di Dio, discenda dalla croce, non discese, in modo da mostrare il suo potere discendendo dalla croce? Non scese dalla croce perché insegnava la pazienza, e per questo rinviava la manifestazione della sua potenza. Infatti, se lasciandosi indurre dalle loro parole, fosse disceso, lo si sarebbe ritenuto vinto dal dolore per i loro insulti. Pertanto, non discese; rimase là inchiodato, pur potendo discendere quando avesse voluto. Era forse qualcosa di straordinario scendere dalla croce, per Lui che poté risorgere dal sepolcro?». Una seconda risposta che richiamiamo è quella di Kierkegaard, il quale ha affermato che proprio in quanto era Figlio di Dio, Cristo non è sceso dalla croce e ha provato la sua divinità, il suo essere vero Dio e vero uomo. Infatti, precisa Kierkegaard, «se Egli fosse stato un impostore, allora avrebbe potuto entrare facilmente nel personaggio e far vedere che, proprio nel momento in cui Egli dimostrava la sua divinità, si smentiva da solo». Ricordiamo infine uno splendido aforisma di Simone Weil, che suona come un vero e proprio paradosso esplosivo: « Dio ha dovuto incarnarsi e soffrire, per non essere inferiore all'uomo » , ossia per assumere su di sé, per amore, tutto ciò che è caratteristico dell'uomo ( che è una sua creatura), e proprio il dolore al massimo grado con la morte sulla croce
.

Agostino, un santo che parla ai giovani d'oggi

di Gérard Depardieu
"Agorà", domenicale dell'Avvenire, Domenica 5 luglio 2009, n. 176

Per me tutto è cominciato a Roma nel Giubileo del 2000. Ho voluto andarci in pellegrinaggio perché ammiravo molto Giovanni Paolo II. Mi sono trovato tra i cardinali e l’orchestra; sono stato presentato al Santo Padre. Egli mi ha guardato ed ha esclamato all’indirizzo dei cardinali che lo circondavano: «Agostino! Bisogna parlargli di Agostino!». Il Cardinale Poupard si augurava che facessi un film, ma gli ho obiettato che non conoscevo nulla dell’opera di Sant’Agostino. Mi ha consigliato di cominciare con "Le Confessioni". All’inizio, la lettura non è stata agevole, ma le parole di Agostino mi hanno catturato. La sua riflessione mi è sembrata sublime e mi ha rinviato a me stesso, al mio percorso.
Tra i 15 e i 17 anni non sapevo più esprimermi, non parlavo più, per colpa di una iper-emotività patologica. Solo le parole altrui, degli scrittori, sono riuscite a calmarmi. Quando ho letto Sant’Agostino, ho respinto l’idea di un film, perché l’immagine finisce per legare troppo. Al contrario le parole di Agostino e ciò che egli lascia intendere ci offrono la sua vera dimensione. Mi sono incollato a quel libro che non mi ha più mollato e che percorro tutti i giorni. Per vent’anni sono andato da un analista: i libri X e XI delle Confessioni (un pozzo di riferimenti per gli psicoanalisti!) forniscono risposte alle nostre domande più intime e calmano i nostri interrogativi più dolorosi.
La voce di Sant’Agostino assomiglia alla poesia di un uomo che non sa dire che cosa gli capita. Quella ricerca mi tocca perché mi rinvia alla mia stessa fragilità ed a ciò che ho vissuto nei momenti cruciali dell’esistenza. Così come li ho istintivamente percepiti, la luce e una certa verità di Agostino mi hanno toccato e hanno fatto nascere in me la voglia di un momento da condividere con altri. Ho immaginato una stanza dove le persone si raccolgano: chiesa, tempio, moschea, sinagoga. Accendere quattro candele che si consumano in 45 minuti - Molière calcolava gli atti delle sue commedie sulla durata di una candela - , sistemarmi là, senza scombussolare nulla, annunciare semplicemente una lettura all’entrata della chiesa. Ho incontrato il presidente Bouteflika ad Algeri, nel 2001, in piena recrudescenza del fondamentalismo musulmano, e abbiamo parlato soltanto di Sant’Agostino . Gli ho detto che avevo bisogno di una guida, e lui mi ha consigliato André Mandouze che, guarda caso, era ad Algeri in quello stesso periodo. Ero colpito, ma perduto nei libri di Sant’Agostino . Pochi giorni dopo il nostro incontro, André mi ha offerto ciò che cercavo: la storia di Agostino, la sua vita di prima, la conversione e l’estasi.
Ho lasciato la scuola a 13 anni, e il catechismo prima ancora della comunione, perché padre Lefèvre che aveva la responsabilità della mia anima mi trovava troppo turbolento. In realtà, ero uno che guardava la vita. Goloso. Vivo. Col desiderio attorcigliato al corpo di conoscere tutto, di capire tutto. A quell’epoca, negli anni Cinquanta, i figli dei poveri non si mescolavano con quelli dei ricchi. Mio padre, lattoniere, benché gregario del Tour de France, era analfabeta, e mia madre faceva molti figli. Ero un’erba selvatica che cresce, animata in permanenza dalla voglia di far bene.
Ero cattolico, non praticante, e in me avevo sempre la presenza del mistero.
Senza conoscere nulla, persino senza saperlo, avevo la Fede. Se la Fede è appunto la voglia di vivere e di guardare tutto, di captare tutto. Mai i miei genitori hanno messo divieti alla mia voglia. Se ne è incaricata la vita. Ho dovuto cercare le mie guide. Ne ho trovate due: Jean Giono e il suo "Canto del mondo". Alla fine dell’adolescenza, quando ho lasciato Chateauroux, avevo in tasca, a portata di mano, i "Racconti di un pellegrino russo".
Tenevo sempre nel fondo di me la supplica «Signore Gesù, abbi pietà di me!», la respiravo e toglieva tutte le mie paure.
Ero pesante di spiritualità senza saperlo.
Ora Sant’Agostino mi ha riconciliato con la Bibbia
.

venerdì 3 luglio 2009

A cena con Matteo

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 9,9-13

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte e gli disse: "Seguimi". Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli.
Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: "Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?".
Gesù li udì e disse: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori.

martedì 9 giugno 2009

Preghiera per quando si è stanca e tristi - Luigi Giussani

Le due grazie che il Signore dona sono: la tristezza e la stanchezza.
La tristezza perché mi obbliga alla memoria
e la stanchezza perché mi obbliga alle ragioni per cui faccio le cose.

Fà o Dio
che una positività totale guidi il mio animo,
in qualsiasi condizione mi trovi,
qualunque rimorso abbia,
qualunque ingiustizia senta pesare su di me,
qualunque oscurità mi circondi,
qualunque inimicizia, qualunque morte mi assalga.

Perché Tu,
che hai fatto tutti gli esseri,
sei per il bene.

Tu sei l’ ipotesi positiva su tutto ciò che vivo

mercoledì 27 maggio 2009

In quel tempo Paolo disse

Dagli Atti degli Apostoli: 20, 32-35

"Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l'eredità con tutti i santificati.
Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani.
In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: 'Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!'"

sabato 21 marzo 2009

Emily, 573

" La prova estrema dell'amore - è la morte -
nostro signore " tanto amò " - si dice -
Ciò che possiede il primo degli amanti
un altro poi lo prova -

Se minore risulta la pazienza
in un limitato infinito -
se il plauso può spesso deviare
in nervi meno forti -

accetta il suo valore
ed ignora la polvere -
l'ultima - la più umile -
domanda la croce -



Emily Dickinson, 573

domenica 1 marzo 2009

Questo il segno

Dal libro della Genesi: Gn 9, 12 - 17

" Questo è il segno dell'alleanza che io pongo tra me e voi e tra ogni essere vivente che è con voi per le generazioni eterne. Il mio arco pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell'alleanza tra me e la terra. Quando radunerò le nubi sulla terra e apparirà l'arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e tra ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque del diluvio... L'arco sarà sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l'alleanza eterna tra Dio e ogni essere vivente che vive in ogni carne che è sulla terra". Dio disse a Noè: " Questo è il segno dell'alleanza che io ho stabilito tra me e ogni carne ...".

Davide Maria Turoldo

Parlaci, Dio, della tua inesausta fatica,
di essa si sussurrano appena sospetti:
anche tu, infinitamente
più che l'uomo, senza quiete?

Un sogno perfino ti spinge a varcare
il confine della tua solitudine,
un sogno che rende anche le cose insonni!

E là si celebri il banchetto nuziale
dividendo il Pane e il Vino fatto sangue
e nella estrema entelechìa si plachino
le due attese: poichè a noi pure
è negato transitare l'abisso.

Divina passione spezza la circolare
Natura, onde il Verbo infinitamente
risuona dalla tua bocca: altro
Te stesso, per cui spira fra voi
il comune Pneuma, il gorgo d'Amore
che vi delizia e tormenta insieme:
il primo Fuoco, origine di ogni altro
fuoco che nelle infinite
altre fiamme si espande...

Così tu non puoi, Dio, non creare:
popolare gli spazi di astri,
colmare gli abissi del Nulla.
E poi illuderti di fare dell'uomo
la tua riuscita immagine!

" Ombra del sogno ": schermo appena!

Per quanto, se tale Coscienza
non ti sia di specchio, e gli infiniti
corpi di te non rifrangano almeno
bagliori, mai avresti un senso:
perduto anche tu, e senza gloria.

Nè conviene dire che solo in principio
creasti, quando da allora
se appena un attimo
di pensare alle tue creature sospendi
e il tuo respiro a loro sottrai, ecco
che il Nulla ancora ci inghiotte.

Almeno incatenare il Nulla, o Dio!
E vincere il Male
offesa dell'universo...

Ma poichè tu non puoi non stare
al libero gioco, anche tu
sei un Dio in pena, e noi
il tuo dramma di essere Dio.

domenica 11 gennaio 2009

Battesimo di Gesù / memoria del Battesimo

John Donne

Sfasciami il cuore, Dio di tre persone,
Che finora hai bussato, bisbigliato,
Fatto luce e cercato di correggermi:
Se vuoi che m'alzi e resti in piedi, abbattimi,
Spezzami, bruciami, e rifammi nuovo.
Come città usurpata, a un altro debita,
Brigo per farti entrare, inutilmente:
La ragione, che in me è il tuo vicerè,
E dovrebbe aiutarmi, è prigioniera,
E si dimostra debole o fallace.
Eppure t'amo, e vorrei esser riamato,
Ma son promesso sposo al tuo nemico:
Sciogli, spezza quel nodo, tu, divorziami,
Rapiscimi, imprigionami, perchè
O mi fai schiavo o non sarò mai libero,
O mi violenti o non sarò mai casto.

martedì 6 gennaio 2009

Epifania 1929

Madre Teresa di Calcutta
Il 6 gennaio 1929, dopo un viaggio di cinque settimane, suor Teresa giunse a Calcutta. In una lettera che mandò a casa rese partecipi i suoi lettori dell'arrivo nella città che sarebbe stata per sempre associata al suo nome:

La mattina del 6 gennai abbiamo lasciato il mare e siamo entrati nel Gange, il 'Fiume sacro'. Durante il tragitto abbiamo potuto osservare da vicino la nostra nuova patria, il Bengala. La natura è meravigliosa. In alcuni luoghi ci sono delle belle casette, ma, per il resto, solo tuguri allineati sotto gli alberi. Vedendo tutto questo abbiamo desiderato di potere inserirci il più presto possibile in mezzo a loro. Siamo venute a sapere che vi sono pochissimi cattolici. Quando la nostra nave è approdata alla riva abbiamo cantato nella anima il Te Deum. Le nostre sorelle indiane ci stavano aspettando, e insieme a loro, con indescrivibile gioia, abbiamo toccato per la prima volta il suolo bengalese.
Nella cappella del convento abbiamo prima di tutto ringraziato il nostro caro Salvatore per la grande grazia di averci fatto arrivare sane e salve alla meta tanto sospirata. Resteremo qui una settimana, dopo di che partiremo per Darjeeling, dove si svolgerà il nostro noviziato.
Pregate molto per noi affinché possiamo essere missionarie buone e coraggiose.

Brano tratto da "Madre Teresa, Sii la Mia luce", a cura di Brian Kolodiejchuk, Rizzoli, Milano 200 (pp. 28-29).

sabato 3 gennaio 2009

Ogni cosa ha il suo tempo

Dietrich Bonhoeffer
DBW 8,244s. [trad. it. Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, in ODB 8, Queriniana, Brescia 2002, 228s].

Dio non farà mancare, a chi lo trova e lo ringrazia nella propria felicità terrena, i momenti in cui gli sarà ricordato che tutte le cose terrene sono qualcosa di provvisorio, e che è bene abituare il proprio cuore all'eternità. [...] Ma tutto questo ha il suo proprio tempo, e ciò che più conta è tenere il paso di Dio, e non volerlo sempre precedere, né d'altra parte stargli indietro. E' un atteggiamento tracotante voler avere tutto in una volta. [...] Ogni cosa ha 'il suo tempo': [<<] piangere e ridere [...] abbracciare e astenersi dagli abbracci [...] stracciare e ricucire [...] (Qo 3,4.5b.7a) e Dio ricerca ciò che è già passato (Qo 3,15b)>>. Quest'ultimo passo significa che nulla di ciò che è passato va perduto, che Dio assieme a noi torna a cercare anche il passato che ci appartiene. Quando perciò ci coglie la nostalgia per qualcosa che è passato - il che accade in circostanze assolutamente imprevedibili - dobbiamo essere consapevoli che è solo uno dei tanti 'momenti' che Dio tiene ancora in serbo per noi, e allora dobbiamo cercare di ritrovare il passato non da soli, ma in compagnia di Dio.

Brano tratto da "Voglio vivere questi giorni con voi", a cura di Manfred Weber, Queriniana, Brescia 2005.

giovedì 1 gennaio 2009

Nel nome della madre di Dio

Dal Vangelo secondo San Luca: 2,15-21

Ed avvenne che quando gli angeli se ne furono andati da loro in cielo, i pastori si dicevano l'un l'altro: "Andiamo dunque fino a Beltlemme e vediamo questa cosa, che il Signore ci ha fatto conoscere". E vennero in fretta, e trovarono Maria e Giuseppe e il neonato adagiato nella mangiatoia. Avendolo visto, fecero conoscere ciò che era stato detto loro riguardo a questo bambino. E tutti quelli che udivano si meravigliavano di ciò che i pastori dicevano loro. Quanto a Maria, custodiva con cura tutte queste cose meditandole nel suo cuore. E i pastori se ne ritornarono glorificando e lodando Dio per tutto ciò che avevano udito e visto, come era stato detto loro.
E quando furono compiuti gli otto giorni per circonciderlo, fu chiamato col nome di Gesù, come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito nel ventre.