domenica 27 gennaio 2008

Giorno della Memoria

C’è stato un periodo in cui / la mia persona
Ha odiato apertamente un altro uomo_

C’è stato un periodo
in cui / apertamente / non c’è stata vergogna_

Questa memoria
ricorda che non sono migliore / senza il ricordo
e l’accusa di ciò che è rimasto / seppure è nel passato_

Non c’è distinzione / fra quest’uomo
e quell’uomo che ha ucciso_

Sepolto nella storia / va ritrovato
L’uomo sepolto non mi fa migliore_

Risorto il cadavere / potrò essere vivo
e riconoscermi migliore_

Chi ha incontrato un salvato
ha incontrato un risorto / l’uomo che perdona chi lo ha ucciso_

Ciò che non viene assunto / non viene neanche salvato

lunedì 21 gennaio 2008

In margine al relativismo - nota sulla laicità

Attaccare chi ha convinzioni, opinioni e credenze diverse dalle nostre è una contraddizione per chi si professa scevro da dogmatismi e si dichiara tollerante dentro e fuori ogni gruppo sociale di appartenenza, religioso o laico che sia: sottolinea la sostanziale differenza fra una persona non liberale – non tollerante – che ha reso il relativismo un dogmatismo e una persona autenticamente liberale – ovvero tollerante – che attraverso un corretto relativismo si difende dal dogmatismo della supponenza, dell’indifferenza o del potere.
Per i sedicenti relativisti, ormai presenti dentro e fuori ogni gruppo sociale di riferimento, che si presentano assertori delle libertà e della tolleranza, infatti non solo tutte le convinzioni, le opinioni e le credenze “godono lo stesso status alla luce della ragione come una luce verde a credere ciò che aggrada con la convinzione e la forza che aggrada” (cfr. “Gli equivoci del relativismo” articolo apparso su Il Sole-24 ore del 26 agosto 2005), ma queste hanno una gradazione etica diversa a seconda della propria interpretazione, della propria intelligenza e della propria cultura; dunque, della propria educazione, ovvero della capacità di controllare la propria od altrui opinione.
Oggigiorno il professarsi relativista ~ un tempo il relativismo esprimeva autentiche posizioni etiche ~ si riduce “alla goffa conclusione che ogni sistema di convinzioni, opinioni e credenze sia giustificato o giustificabile e, dunque, che nessuno possa giudicare le convinzioni degli altri e, tanto meno, affermare la validità delle proprie” (ibidem) … a meno che non si arrivi ad attaccare, misconoscere o sconfessare le persone o le istituzioni rispetto alla loro confessione di fede, al loro credo, ai loro valori, alla loro cultura ed etica di riferimento (il Dalai Lama oggi è considerato un'autorità morale universale, il Papa non più; come mai?).
Non potendo più criticare le convinzioni, le opinioni e le credenze altrui, in quanto oramai tutte equivalenti, al sedicente relativista non è rimasto altro che criticare i comportamenti teorizzando però un’etica formale del “rispetto del pluralismo”, una “prassi dell’indifferenza”, un “razionalismo scettico ed individualistico”. Insomma, la negazione del vivere in società, la contraddizione di ogni sorta di relazione profonda, l’abbandono di una dialettica conciliante, la rinuncia alla convivenza, una pura battaglia per la sopravvivenza delle idee e degli stili di vita, una trincea della vita privata (La cultura che ha una storia che valore ha?).
Dietro al sedicente relativista, allora, sempre più appare un qualunquista, non una persona debole, priva di intelletto, con un grado di educazione basso. Un manipolatore, più che un manipolato.
D’altra parte il Relativismo ~ quello autentico con la R maiuscola ~ non è stato altro che l’antidoto all’arroganza dogmatica e all’intolleranza: il vero Relativista non attaccherebbe mai la persona o l’istituzione che rappresenta una nazione, quanto una comunità, o non userebbe mai un formalistico rispetto o l’indifferenza o uno scettico individualismo per difendere o proporre i propri valori, ma tenderebbe a sposare dibattiti, incontri, luoghi in cui tentare di conciliare le diversità per il raggiungimento di un sempre maggior bene comune a vantaggio di tutta la società. Il Relativista neppure potrebbe accettare ~ in maniera qualunquistica ~ per sé o per gli altri ogni stile di vita, perché la sua esistenza si fonda su dei veri e ~ quindi ~ condivisibili valori, unico cemento per un’etica comune a vantaggio di tutti.
Infine, fuor di metafora, il rapporto tra i cosiddetti “laici” (gli atei?, i non credenti?, i credenti aconfessionali?) e le persone cosiddette “religiose” (i credenti confessionali?) resta comunque un problema irrisolto e pungente nella società liberale, occidentale e moderna: il laico, per lo più (anche se non sempre è così), sembra optare per un riconoscimento dell’esistente, del dato di fatto, dedicando poca attenzione alle questioni dei principi, al massimo promuovendo ~ nel campo dell’etica ~ battaglie libertarie e di tolleranza, e ~ in politica ~ affermando i diritti dei singoli ed il rispetto dell’ambiente, come nuove religioni sociali e civili; il religioso è consapevole di vivere in un mondo secolarizzato, ma è impegnato ad affermare il valore alto di una visione del mondo.
Per questo il Relativista che incarna valori forti ed esprime richiami a principi e a tradizioni familiari e sociali non corruttibili, appare oggi in minoranza, in via di estinzione e “reazionario” al mondo laico delle nuove religioni civili.

La politica stessa, divenuta nel frattempo teatro per l’audience, è divenuta visione civile di un nuovo culto religioso, luogo in cui si possono affermare, costruire, formare “nuovi valori” o valori di singoli o di singoli gruppi.
Non a caso il Relativista riesce meglio a confrontarsi con il mondo religioso – in genere quello cattolico – che esprime valori non in-fondati, piuttosto che con quello che afferma di tollerare ma non riesce più ad avere in sé e fuori di sé una scala di valori o di riferimenti assoluti. L’opinione della maggioranza o di un singolo individuo, di fatto, oggi può essere un nuovo valore e dunque ogni valore può costituirsi al di fuori di un contesto sociale, di un percorso storico, etico-culturale o religioso. Questo è un dramma, perché il "qui ed ora" è divenuto un valore assoluto ed il futuro la semplice proiezione di un eterno presente.
Che ci sia un punto di contatto fra abbandono dei falsi idoli e ricerca delle verità? Fra lotta per la libertà e lotta interiore che libera da ogni forma di idolatria e schiavitù in vista del bene comune? Che ci sia una speranza condivisibile, oltre al possibile ethos condiviso? La Ragione quale percorso deve intraprendere nel mondo contemporaneo?

In fondo, la tolleranza stessa, per essere tale, deve riconoscere il diverso da sé come ”non portatore di valori”, paradossalmente come colui che scalfendo i miei valori mette in pericolo la mia vita, il futuro dei miei figli. La tolleranza non è il semplice “vivi e lascia vivere”, un “basta che tu non impedisca le mie libertà”. La tolleranza è un impegno morale molto gravoso, serio, difficile che mette in crisi: nel momento che riconosco la tua differenza da me, mi impegno a non escluderti, a riconoscerti ed infine ad accettarti. Ti accetto nel tuo non portare valore – ovviamente, secondo la mia visione della vita – ma allo stesso tempo ti confermo nel consesso civile, perché infine questo imporrà l’accettazione dell’altro in vista di un sempre maggiore bene comune (mai scisso dal valore della pace e della giustizia sociale): ti tollero e cercherò con te soluzioni – che non ammettono qualunquismo ed indifferenza fra di noi – in vista del bene comune.

La tolleranza è certamente una lotta, seppur pacifica se vissuta dalla ragione nella giustizia sociale.

domenica 20 gennaio 2008

Per uno sviluppo della laicità nel dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale in vista del bene comune

Una “regola” non è una legge, ma costituisce una base per ogni relazione la cui discrezionalità è così limitata; soprattutto in un consesso civile, seppur idealmente considerato, come quello laico, ecumenico, interreligioso o interculturale di una comunità locale, quale quello di una Città.
In una “regola” (ancorché implicita) dovrebbe riflettersi il costume ~ l’ethos ~ profondo e stabile di ciascuna persona e della società; i loro valori durevoli, quelli cioè destinati ad accompagnare le trasformazioni e le crisi di una comunità: un gruppo di persone che si ritrovano nell’accoglienza delle diversità e che indirizza la propria riflessione e la propria azione in vista del bene comune.
E’, infatti, dal “più piccolo e ristretto gruppo sociale del mondo”, che coglie questa esigenza “normativa” (ancorché implicita della regola), che nasce una comunità, entro la quale sono possibili valori condivisi (ancorché violati e ristabiliti costantemente) nella permanenza di valori arbitrari (la possibile costruzione di valori operata da ciascuno?) o non riconosciuti dagli altri (?) o semplicemente diversi (?).
Affinché nasca una comunità, cioè, non è sufficiente riflettere nella società civile il proprio costume individuale, il proprio stile di vita, le proprie libertà; questo approccio, infatti, non sarebbe sufficiente per stabilire un “ethos profondo e stabile” condiviso e riconosciuto da tutti. Il “più piccolo e ristretto gruppo sociale del mondo” si costituisce come comunità in presenza di un tessuto di relazioni alimentato dall’omogeneità e quando questo tessuto la produce innescando un processo di coesione.
Per non fraintendere: una comunità non esiste se gli individui che la compongono permangono in un tessuto di relazioni eterogenee, ovvero lasciano alla spontaneità e alle pur indispensabili capacità personali il governo della complessità nel loro incontrarsi-scontrarsi, del loro differenziarsi, il governo delle loro libertà.
Quando una società civile si dota di una “regola” (ancorché implicita), la regola è la traduzione coerente in norme dei valori condivisi di riferimento; e l’adesione (ancorché implicita) alla regola stessa diviene un modo di rin-saldare la propria appartenenza alla comunità, mentre per l’individuo, l’obbedienza (ancorché implicita) alla regola, diviene adesione morale, costitutiva della sua stessa identità all’interno della comunità stessa, sinonimo di fedeltà e rispetto delle posizioni di ciascuno.
Seppur indispensabili e necessarie, ragione, coscienza ed etica individuale, di fatti non sono sufficienti per alimentare e produrre una società civile che comincia a trasformarsi in una comunità: dall’incontro-scontro prodotto dalla pluralità delle etiche dis-omogenee, tipica del mondo individualista di oggi, rischia solo di emergere o il più forte o un’etica come prodotto, indifferente alla persona, alle relazioni e al mondo.
Una comunità non può nascere da una mera selezione “darwiniana”, ma è frutto di una “regola”, ancorché implicita; mai è il risultato di una sommatoria. Essa è piuttosto il prodotto della ragione e della storia.
Di fronte alla frammentazione etica, quotidiana, del nostro mondo o alla mancanza di un ethos profondo, in quanto tutto oggi è rimandato alle scelte contingenti, il problema da sentire è come creare, ri-creare e mantenere l’omogeneità di cui è espressione principale la “regola” sottesa al convivere civile che struttura una comunità. Non si tratta di provare nostalgia per un presunto fondamento ideale/ideologico (familiare, religioso, sociale, politico etc.), piuttosto si deve avere la forza di ri-affermare costantemente la necessità di un fondamento etico della società per il bene comune, appunto, di ciascuno e di tutti in vista di uno sviluppo integrale dell’uomo e di tutti gli uomini all'interno del mondo.
Il ripiegamento nostalgico è un’operazione non solo contraria alle dinamiche umane ~ ordinate alla ragione ~ lacerate ed esplose all’interno di una globalizzazione delle relazioni e di una pluralità delle etiche individuali e sociali, ma anche sterile ed insufficiente.
¿Oggi, ci sono dei valori comuni perché vi sia un’etica di tutti, visto che nella laicità contemporanea non sembra più esserci spazio per un “ethos” precostituito (quale può essere quello, ad esempio, della cristianità) e che la creazione di un tessuto comune, coeso e necessariamente omogeneo, non è più un dato di partenza?
La creazione di un tessuto comune, coeso ed omogeneo è una “finalità” – non un dato di partenza – da perseguire imprescindibilmente ogni volta che la società va in crisi; ogni volta che un uomo viene al mondo.
Questo sottende il valore imprescindibile dell’educazione, non dell’auto-determinazione; dell’obbligo a educare da parte della società civile, non semplicemente di essere ciò che si è da parte dell’individuo; dell’obbligo a tramandare, a mantenere, a recuperare … a difendere la persona nel tessuto delle relazioni che hanno sempre un prima, un’ora ed un dopo responsabile dentro una storia sostenibile anche per le generazioni future, per il mondo
Cosa è, infatti, che tiene unito una comunità?
E' nel governare la complessità che sta l'arte dell’uomo; ovvero, nel riordinare se stessi e le proprie rel-azioni all'interno di un comunità non perdendo mai di mira il bene comune; che non è mai fine a se stesso, ma traguarda l'uomo nel suo mondo, nell'universo storico e fisico per proiettarlo, per tramandarlo.
Che cosa è che giova, dunque? Paradossalmente, all’interno di una comunità coesa, omogenea, ovvero regolamentata, anzi ben ordinata, un possibile disonesto è ininfluente; all'interno di una società civile eterogenea, de-regolamentata, anzi dis-ordinata, anche la persona più arguta, più intelligente, più creativa, più capace, più preparata, più acculturata, anzi più ... “eticamente virtuosa”, è ininfluente.
E’ dunque opinabile rimettere al centro della questione culturale il valore imprescindibile dell’essere comunità, paradossalmente contrapposto al valore irrinunciabile della libertà, quanto della laicità dell'individuo e della società?
Od è discutibile il valore all'educazione di essere liberi per il bene comune, contrapposto alla libertà di essere ciò che si vuole o alla libertà da qualsiasi realtà?

Ciò che giova è ciò che fa rimanere in relazione, in quella relazione profonda, stabile che matura a discapito di qualsiasi scelta individualistica e di qualsiasi crisi all’interno della società (di qualsiasi gruppo religioso, di qualsiasi laicità) facendo costantemente sussistere una comunità, mentre cresce il bene comune dentro questo nostro micro/macrocosmo che è il mondo.

Nel ben ordinare la propria vita, quanto una comunità, vige una triplice regola: quella di usare la Memoria (perché la superficie del quotidiano non è mai la storia intera), quella di usare l'Intelletto (per discernere, ovvero per valorizzare ciò che è buono e tralasciare il poco di buono della nostra storia) e quella di usare la Volontà (per muoversi nel modo indicato dalla ragione e dalla coscienza etica in vista del bene, anzi del bene comune, al fine di permettere alla storia di proseguire il suo corso). La coerenza rispetto alle proprie idee, quanto il rispetto relativo alle idee altrui, o la stessa libertà di e da, tanto declamati oggi da una certa cultura, non apportano mai valore aggiunto se non vengono costantemente ben ordinati in vista del bene comune all'interno di questa visione universale in cui persona, comunità e mondo si intersecano ineluttabilmente.
Il ricorso alle tre potenze: memoria, intelletto e volontà, di retaggio ignaziano (Ignazio di Loyola), non è sinonimo di limitazione delle libertà individuali, ma un valido presupposto per affermare un’etica comune e per essere, creare, ri-creare, mantenere e difendere le relazioni in vista del bene comune e dunque per accrescere il valore imprescindibile della libertà di ciasuno per essere comunità all'interno di questo mondo da tramandare alle generazioni future (per questo possiamo dare un esempio e, dell'umana convivenza, un esempio è vivere la comunità).
Il ricorso alle tre potenze individua, forse, la più piccola e basilare ed insignificante “regola”, ancorché implicita, che può fondare una comunità…

“Se si pensa al volo di uno stormo di uccelli, la forma ordinata che assume non dipende da una legge generale o dal comando di un capo, ma ‘emerge’ dalle interrelazioni tra gli individui che seguono poche regole base, come quella di porsi in una certa posizione rispetto ai vicini” (cfr. “Storie di ordinario caos”, articolo di Luca de Biase apparso su Nòva – Il Sole-24 ore di giovedì 16 marzo 2006). “La vera amicizia non consiste nel trovare nuovi amici, ma nel vedere i soliti con occhi diversi. I pensieri, come le parole, hanno la loro importanza, possono formare una coscienza: qualsiasi cosa noi amiamo, è quello che noi siamo. Questo mi indirizza” (una frase nata e soffermata per scritto avendo letto e riflettuto su due pensieri, uno di Marcel Proust, l’altro di David Leavitt dal “Linguaggio perduto delle gru”).

Prato, lì 19-20.03.2006 / Memoria di san Giuseppe, patrono dell’umanità / 06.01.2007 / Epifania del Signore / 09.04.2007 / Lunedì dell’Angelo / 20.01.2008 / Memoria di san Sebastiano.

giovedì 10 gennaio 2008

Chi ama Dio, ami anche il suo fratello

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo: 1 Gv 4,19 - 5,4
Carissimi, noi amiamo Dio, perché egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello.
Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato.
Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti, perché in questo consiste l'amore di Dio, nell'osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi.
Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede.

Lc 4,18
Il Signore mi ha mandato
ad annunziare ai poveri il lieto messaggio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione.


Dietrich Bonhoeffer
DBW 15,497

"[...]. La parola ebraica per ramo è nèzer, che è proprio la radice del toponimo Nazaret. Tanto nascosta in profondità il vangelo trova dunque la promessa nell'Antico Testamento che Gesù sarà povero, disprezzato e piccolo. Nel cammino così poco comprensibile per Giuseppe e per il mondo intero verso la misera Nazaret si compie da capo il cammino di Dio con il Salvatore del mondo intero. Egli deve vivere nella più profonda povertà, oscurità e umiliazione, deve prendere parte alla vita di coloro che non hanno rispetto e che sono disprezzati, affinché porti su di sé la miseria di tutti gli uomini e possa divenire il Salvatore".

tratto da "Voglio vivere questi giorni con voi", a cura di Manfred Weber, Queriniana, Brescia 2005.

mercoledì 9 gennaio 2008

Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi

Dalla prima lettera di San Giovanni apostolo: 1 Gv 4, 11-18
Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi.
Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito. E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo. Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio.
Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui. Per questo l'amore ha raggiunto in noi la sua perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio; perché come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo.
Nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore.

Is 49, 8-9
Ti ho formato e posto come alleanza per il popolo, per far risorgere il paese, per farti rioccupare l'eredità devastata, per dire ai prigionieri: Uscite, e a quanti sono nelle tenebre: Venite fuori.

martedì 8 gennaio 2008

Dio è amore

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo: 1 Gv 4, 7-10
Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui.
In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.

domenica 6 gennaio 2008

Epifania del Signore - Inno - Vespri

Perché temi, Erode,
il Signore che viene?
Non toglie i regni umani,
chi dà il regno dei cieli.

I Magi vanno a Betlem
e la stella li guida:
nella sua luce amica
cercan la vera luce.

Il Figlio dell'Altissimo
s'immerge nel Giordano,
l'Agnello senza macchia
lava le nostre colpe.

Nuovo prodigio, a Cana:
versan vino le anfore,
si arrossano le acque,
mutando la natura.

A te sia gloria, o Cristo,
che ti sveli alle genti,
al Padre e al Santo Spirito
nei secoli dei secoli.