sabato 25 luglio 2009

Le amnesie delle politche migratorie

di Valerio Onida
Il Sole 24ore, 20 luglio 2009

La prima impressione, di fron¬te alle norme del pacchetto sicurezza dedicate agli immigrati, e alla successiva proposta di regolarizzazione di badanti e colla¬boratori familiari, è quella di un at¬teggiamento schizofrenico del legislatore. Il 15 luglio viene promul¬gata la legge che, fra l'altro, intro¬duce il nuovo reato di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato», "criminalizzando" tutti gli stranieri non in regola con il permesso di soggiorno. Non è passato nemmeno un giorno, ed ecco il Governo promuovere in Parlamento un emendamento che sospende di fatto l'applicazione del nuovo reato nei confronti di ba¬danti e colf, fino al 30 settembre o fino all'eventuale rigetto della do¬manda di regolarizzazione (salvo però tornare ad applicarlo in caso di mancata regolarizzazione: col che potrebbe profilarsi una sorta di autodenuncia per coloro le cui domande saranno respinte).
Ce ne sarebbe abbastanza per constatare quanto siano fondati i rilievi sull'improprio modo di legi¬ferare del Parlamento, mossi dal Capo dello Stato (senza però effet¬ti giuridici di sorta) nella lettera in¬viata al Presidente del Consiglio.
Ma è forse più interessante do¬mandarsi quali siano, e se siano da condividere, gli indirizzi del Go¬verno e della maggioranza in tema di politiche migratorie. I movi¬menti migratori sono, come è no¬to, un fenomeno di massa non evi¬tabile, collegato a fattori e realtà propri del nostro tempo e del no¬stro mondo globalizzato.
La Costituzione (scritta in un'epoca in cui erano gli italiani a emigrare) si limita a stabilire che la Repubblica «riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero» (articolo 35). Quanto agli stranieri, riconosce il diritto di asilo a co¬loro cui sia impedito nel loro pa¬ese l'esercizio delle libertà de¬mocratiche (articolo io). Ma la libertà di emigrazione è espres¬samente riconosciuta a «ogni in¬dividuo» dall'articolo 13 della Dichiarazione universale dei di¬ritti dell'uomo, e riguarda dun¬que anche chi nel nostro paese viene o vuole venire, non solo chi vuole andarsene.
Qual è dunque la politica dell'Italia riguardo a questo fe¬nomeno? In realtà il nostro pae¬se non si è mai dato una seria ed efficace politica dell'immigra¬zione. Consideriamo un solo ele¬mento: chi entra in Italia (legal¬mente o illegalmente), salva la ristretta minoranza che lo fa per darsi ad attività magari lucrose ma illecite, è alla ricerca di un lavoro per assicurare a sé e alla fa¬miglia mezzi di sostentamento, e delle correlative condizioni di vita (alloggio, servizi). È dun¬que determinante, tanto più per un paese come il nostro in cui vi è un'offerta di lavoro che rimar¬rebbe altrimenti insoddisfatta (non solo per badanti e colf), consentire e favorire l'accesso degli immigrati al lavoro. Mala nostra legislazione richiede, per consentire tale accesso, che lo straniero sia munito di un per¬messo di soggiorno che abiliti al lavoro medesimo; tuttavia la concessione di un tale permes¬so è a sua volta subordinata alla dimostrazione della disponibili¬tà del lavoro.
È un serpente che si morde la coda: ed ecco l'ipocrisia di "quo¬te" annuali di ingresso per gli stranieri, formalmente destina¬te a soddisfare richieste di perso¬ne residenti all'estero che voglio¬no immigrare, e che di fatto ven¬gono usate invece per persone che già si trovano nel nostro ter¬ritorio, regolarmente o irregolar¬mente. D'altra parte, qual è il da¬tore di lavoro (famiglia o impren¬ditore) che assume il lavoratore a 5.ooo chilometri di distanza, senza conoscerlo? Eppure la no¬stra legge non prevede la possibi¬lità di soggiornare legalmente alla ricerca di un lavoro: l'istituto dell'ingresso garantito da uno sponsor, per inserimento nel mercato del lavoro, introdotto nel 1998, venne abolito dalla leg¬ge Bossi Fini del 2002. E sarebbe interessante sapere quante e quali siano (temo ben poche) le attività di formazione professio¬nale nei paesi di origine, finalizzate all’«inserimento mirato» nei settori produttivi italiani, ef¬fettivamente realizzate secondo la previsione di legge che ha so¬stituito quella degli sponsor.
Per converso, le frequenti mo¬difiche legislative degli ultimi anni sono state tutte volte, co¬me quelle del "pacchetto sicurezza", a "indurire" il trattamen¬to riservato agli stranieri, in un'ottica che vede nell'immigra¬to quasi solo un pericolo per la sicurezza pubblica. E se ora si re¬golarizzano badanti e colf, non è per una resipiscenza, ma solo per l'egoistico timore di privare le famiglie di un sostegno ad es¬se necessario. A loro volta le po¬litiche locali assai spesso sono andate nella direzione di discri¬minare, non di rado illegittima¬mente, nell'accesso ai servizi pubblici e alle prestazioni socia¬li, e nell'esercizio di diritti ele¬mentari come la libertà religio¬sa, gli stessi immigrati regolari, visti come sgraditi "concorren¬ti" degli italiani o come minac¬cia per la nostra "identità".
Non ultima, c'è la questione della partecipazione degli stranieri alla vita pubblica. Fin dal 1992 esiste una convenzione del Consiglio d'Europa in base alla quale gli Stati aderenti si impe¬gnano, fra l'altro, a riconoscere agli stranieri regolarmente resi¬denti da cinque anni l'elettorato attivo e passivo nelle elezioni lo¬cali: ebbene, l'Italia non aderi¬sce a questa parte della conven¬zione, e dunque nelle nostre cit¬tà centinaia di migliaia di stra¬nieri che vivono, lavorano, paga¬no le tasse e usano i servizi loca¬li sono esclusi dall'esercizio dell'elementare diritto di parte¬cipare alla scelta degli ammini¬stratori: con buona pace dell'idea stessa di democrazia.

domenica 19 luglio 2009

Cristo, il Messia mite che gli ebrei non riconobbero

di Giovanni Reale
intervento che si è tenuto il 5 luglio al Teatro Dal Verme, a Milano.
Alla serata, dal titolo: «Il dialogo invisibile che esiste»,
nel quadro del Festival «La Milanesiana - Letteratura Musica Cinema» curato da Elisabetta Sgarbi,
hanno partecipato Elie Wiesel, Alain Elkann, Tahar Ben Jelloun, monsignor Rino Fisichella e la cantante francese Anne Ducros.

Il Cristianesimo non è pensabile al di fuori dell'Ebraismo. La Legge di Mosè rimane, per Cristo, volontà e parola di Dio, e quindi sacrale. E ha detto questo senza mezzi termini. In Matteo ( 5, 17- 18) si legge: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento: in verità vi dico, finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà della Legge neppure uno iota o un segno, senza che tutto sia compiuto». Dunque, Cristo non abolisce la Legge e i Profeti. Però proprio con Lui i Profeti cessano di essere, in quanto con Lui si era realizzato ciò che ciò che essi avevano preannunciato. In Luca ( 16, 16) si precisa: «La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora in poi viene annunciato il regno di Dio». Pertanto, le prove che Cristo sia figlio di Dio in primo luogo sono le profezie che sono durate per lungo tempo, e che nessun'altra religione ha avuto; in secondo luogo, dipendono dal fatto che tali profezie si siano verificate, perfino nei dettagli. Per quanto riguarda il rapporto del Cristianesimo con l'Ebraismo, è da tenere ben presente il fatto che l'ultimo profeta di Cristo è stato proprio Giovanni Battista, che non solo lo ha previsto, ma lo ha indicato a dito. Dopo la venuta di Cristo non ci sono più stati profeti in terra di Israele. E questo costituisce un dato di fatto veramente incontrovertibile. Pascal scriveva: « Per provare Gesù Cristo abbiamo le profezie, che sono prove solide e tangibili. Ed essendosi queste profezie avverate, ed essendo state provate come veritiere dal verificarsi dell'evento, fondano la certezza di questa verità e, pertanto la prova della divinità di Gesù Cristo » ( n. 730). E ancora: «Quando un solo uomo avesse composto un libro di predizioni su Gesù Cristo, nei riguardi del tempo e della maniera, e Gesù Cristo fosse venuto conformemente a tali profezie, ciò avrebbe una forza infinita. Ma qui c'è di più. È un seguito di uomini, per la durata di quattromila anni, che costantemente senza variazioni sorgono uno dopo l'altro a predire lo stesso avvenimento. È tutto un popolo che lo annuncia, e che esiste da quattromila anni per rendere solidamente testimonianza delle promesse ricevute e da cui essi non possono essere distolti, quali che siano le minacce e persecuzioni che loro vengono fatte: questo è ben altrimenti degno di considerazione» ( n. 728). Ciò che gli ebrei non hanno accettato nella figura di Cristo è proprio la sua umiltà, la sua kénosis, ossia il suo abbassamento, che è, invece, ciò che di più elevato c'è in Lui. Kierkegaard scriveva: « Chi è l'invitante? Gesù Cristo. Quale Gesù Cristo? Il Gesù Cristo che siede nella gloria alla destra del Padre? No. Dal trono della gloria egli non ha pronunciato parola alcuna. Dunque, nelle parole d'invito Gesù Cristo le ha pronunciate nel suo abbassamento, nella sua condizione di abbassamento». Ma è proprio la miseria dell'uomo assunta su di sé che Cristo vuole riscattare e sacralizzare, ossia tutte le sofferenze dell'uomo e la stessa morte. Albert Camus, nel suo libro Uomo in rivolta , ha espresso questo concetto in modo assai forte: «Cristo è venuto a risolvere due problemi principali, il male e la morte [...]. La sua soluzione è consistita innanzi tutto nell'assumerli in sé. Anche il dio uomo soffre, con pazienza. Né male né morte gli sono più assolutamente imputabili, perché è straziato e muore. La notte del Golgota ha tanta importanza nella storia degli uomini soltanto perché in quelle tenebre la divinità, abbandonando ostensibilmente i suoi privilegi tradizionali, ha vissuto fino in fondo, disperazione compresa, l'angoscia della morte. Si spiega così il Lamma sabactani e il dubbio tremendo del Cristo in agonia. L'agonia sarebbe lieve se fosse sostenuta dall'eterna speranza. Per essere uomo il dio deve disperare». Ed è proprio la morte in croce che per gli Ebrei è inaccettabile. Già fra coloro che lo videro sulla croce alcuni espressero tale convinzione. Matteo ( 27, 39- 43) riferisce: «E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: ' tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni', salva te stesso! Se tu sei figlio di Dio, scendi dalla croce! Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: ' Ha salvato altri, non può salvare se stesso. È il re d'Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti, Sono figlio di Dio'». Una prima risposta assai significativa data a tali accuse che richiamiamo è quella di Agostino: «Dice magari qualcuno: se era in lui questo potere, perché allora, quando i Giudei lo insultarono mentre era appeso alla croce e dissero: Se è Figlio di Dio, discenda dalla croce, non discese, in modo da mostrare il suo potere discendendo dalla croce? Non scese dalla croce perché insegnava la pazienza, e per questo rinviava la manifestazione della sua potenza. Infatti, se lasciandosi indurre dalle loro parole, fosse disceso, lo si sarebbe ritenuto vinto dal dolore per i loro insulti. Pertanto, non discese; rimase là inchiodato, pur potendo discendere quando avesse voluto. Era forse qualcosa di straordinario scendere dalla croce, per Lui che poté risorgere dal sepolcro?». Una seconda risposta che richiamiamo è quella di Kierkegaard, il quale ha affermato che proprio in quanto era Figlio di Dio, Cristo non è sceso dalla croce e ha provato la sua divinità, il suo essere vero Dio e vero uomo. Infatti, precisa Kierkegaard, «se Egli fosse stato un impostore, allora avrebbe potuto entrare facilmente nel personaggio e far vedere che, proprio nel momento in cui Egli dimostrava la sua divinità, si smentiva da solo». Ricordiamo infine uno splendido aforisma di Simone Weil, che suona come un vero e proprio paradosso esplosivo: « Dio ha dovuto incarnarsi e soffrire, per non essere inferiore all'uomo » , ossia per assumere su di sé, per amore, tutto ciò che è caratteristico dell'uomo ( che è una sua creatura), e proprio il dolore al massimo grado con la morte sulla croce
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Agostino, un santo che parla ai giovani d'oggi

di Gérard Depardieu
"Agorà", domenicale dell'Avvenire, Domenica 5 luglio 2009, n. 176

Per me tutto è cominciato a Roma nel Giubileo del 2000. Ho voluto andarci in pellegrinaggio perché ammiravo molto Giovanni Paolo II. Mi sono trovato tra i cardinali e l’orchestra; sono stato presentato al Santo Padre. Egli mi ha guardato ed ha esclamato all’indirizzo dei cardinali che lo circondavano: «Agostino! Bisogna parlargli di Agostino!». Il Cardinale Poupard si augurava che facessi un film, ma gli ho obiettato che non conoscevo nulla dell’opera di Sant’Agostino. Mi ha consigliato di cominciare con "Le Confessioni". All’inizio, la lettura non è stata agevole, ma le parole di Agostino mi hanno catturato. La sua riflessione mi è sembrata sublime e mi ha rinviato a me stesso, al mio percorso.
Tra i 15 e i 17 anni non sapevo più esprimermi, non parlavo più, per colpa di una iper-emotività patologica. Solo le parole altrui, degli scrittori, sono riuscite a calmarmi. Quando ho letto Sant’Agostino, ho respinto l’idea di un film, perché l’immagine finisce per legare troppo. Al contrario le parole di Agostino e ciò che egli lascia intendere ci offrono la sua vera dimensione. Mi sono incollato a quel libro che non mi ha più mollato e che percorro tutti i giorni. Per vent’anni sono andato da un analista: i libri X e XI delle Confessioni (un pozzo di riferimenti per gli psicoanalisti!) forniscono risposte alle nostre domande più intime e calmano i nostri interrogativi più dolorosi.
La voce di Sant’Agostino assomiglia alla poesia di un uomo che non sa dire che cosa gli capita. Quella ricerca mi tocca perché mi rinvia alla mia stessa fragilità ed a ciò che ho vissuto nei momenti cruciali dell’esistenza. Così come li ho istintivamente percepiti, la luce e una certa verità di Agostino mi hanno toccato e hanno fatto nascere in me la voglia di un momento da condividere con altri. Ho immaginato una stanza dove le persone si raccolgano: chiesa, tempio, moschea, sinagoga. Accendere quattro candele che si consumano in 45 minuti - Molière calcolava gli atti delle sue commedie sulla durata di una candela - , sistemarmi là, senza scombussolare nulla, annunciare semplicemente una lettura all’entrata della chiesa. Ho incontrato il presidente Bouteflika ad Algeri, nel 2001, in piena recrudescenza del fondamentalismo musulmano, e abbiamo parlato soltanto di Sant’Agostino . Gli ho detto che avevo bisogno di una guida, e lui mi ha consigliato André Mandouze che, guarda caso, era ad Algeri in quello stesso periodo. Ero colpito, ma perduto nei libri di Sant’Agostino . Pochi giorni dopo il nostro incontro, André mi ha offerto ciò che cercavo: la storia di Agostino, la sua vita di prima, la conversione e l’estasi.
Ho lasciato la scuola a 13 anni, e il catechismo prima ancora della comunione, perché padre Lefèvre che aveva la responsabilità della mia anima mi trovava troppo turbolento. In realtà, ero uno che guardava la vita. Goloso. Vivo. Col desiderio attorcigliato al corpo di conoscere tutto, di capire tutto. A quell’epoca, negli anni Cinquanta, i figli dei poveri non si mescolavano con quelli dei ricchi. Mio padre, lattoniere, benché gregario del Tour de France, era analfabeta, e mia madre faceva molti figli. Ero un’erba selvatica che cresce, animata in permanenza dalla voglia di far bene.
Ero cattolico, non praticante, e in me avevo sempre la presenza del mistero.
Senza conoscere nulla, persino senza saperlo, avevo la Fede. Se la Fede è appunto la voglia di vivere e di guardare tutto, di captare tutto. Mai i miei genitori hanno messo divieti alla mia voglia. Se ne è incaricata la vita. Ho dovuto cercare le mie guide. Ne ho trovate due: Jean Giono e il suo "Canto del mondo". Alla fine dell’adolescenza, quando ho lasciato Chateauroux, avevo in tasca, a portata di mano, i "Racconti di un pellegrino russo".
Tenevo sempre nel fondo di me la supplica «Signore Gesù, abbi pietà di me!», la respiravo e toglieva tutte le mie paure.
Ero pesante di spiritualità senza saperlo.
Ora Sant’Agostino mi ha riconciliato con la Bibbia
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venerdì 3 luglio 2009

A cena con Matteo

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 9,9-13

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte e gli disse: "Seguimi". Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli.
Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: "Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?".
Gesù li udì e disse: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori.