mercoledì 28 novembre 2007

All'ipotetico lettore (Margherita Guidacci)

All'Ipotetico Lettore

Ho messo la mia anima fra le tue mani.

Curvale a nido. Essa non vuole altro

che riposare in te.

Ma schiudile se un giorno

la sentirai fuggire. Fa' che siano

allora come foglie e come vento,

assecondando il suo volo.

E sappi che l'affetto nell'addio

non è minore che nell'incontro. Rimane

uguale e sarà eterno. Ma diverse

sono talvolta le vie da percorrere

in obbedienza al destino.

Margherita Guidacci

lunedì 26 novembre 2007

40

Belli, questi anni d'autunno.

domenica 25 novembre 2007

Cristo Re dell'Universo - ultima domenica del tempo liturgico

Dall'opuscolo «La preghiera» di Origène, sacerdote
(Cap. 25; PG 11, 495-499)

Il regno di Dio, secondo la parola del nostro Signore e Salvatore, non viene in modo da attirare l'attenzione e nessuno dirà: Eccolo qui o eccolo là; il regno di Dio è in mezzo a noi (cfr. Lc 16, 21), poiché assai vicina è la sua parola sulla nostra bocca e sul nostro cuore (cfr. Rm 10,8). Perciò, senza dubbio, colui che prega che venga il regno di Dio, prega in realtà che si sviluppi, produca i suoi frutti e giunga al suo compimento quel regno di Dio che egli ha in sé. Dio regna nell'anima dei santi ed essi obbediscono alle leggi spirituali di Dio che in lui abita. Così l'anima del santo diventa proprio come una città ben governata. Nell'anima dei giusti è presente il Padre e col Padre anche Cristo, secondo quell'affermazione: «Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23).
Ma questo regno di Dio, che è in noi, col nostro instancabile procedere giungerà al suo compimento, quando si avvererà ciò che afferma l'Apostolo del Cristo. Quando cioè egli, dopo aver sottomesso tutti i suoi nemici, consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1Cor 15, 24.28). Perciò preghiamo senza stancarci. Facciamolo con una disposizione interiore sublimata e come divinizzata dalla presenza del Verbo. Diciamo al nostro Padre che è in cielo: «Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno» (Mt 6, 9-10). Ricordiamo che il regno di Dio non può accordarsi con il regno del peccato, come non vi è rapporto tra la giustizia e l'iniquità né unione tra la luce e le tenebre né intesa tra Cristo e Beliar (cfr. 2Cor 6, 14-15).
Se vogliamo quindi che Dio regni in noi, in nessun modo «regni il peccato nel nostro corpo mortale» (Rm 6, 12). Mortifichiamo le nostre «membra che appartengono alla terra» (Col 3, 5). Facciamo frutti nello Spirito, perché Dio possa dimorare in noi come in un paradiso spirituale. Regni in noi solo Dio Padre col suo Cristo. Sia in noi Cristo assiso alla destra di quella potenza spirituale che pure noi desideriamo ricevere. Rimanga finché tutti i suoi nemici, che si trovano in noi, diventino «sgabello dei suoi piedi» (Sal 98,5), e così sia allontanato da noi ogni loro dominio, potere ed influsso. Tutto ciò può avvenire in ognuno di noi. Allora, alla fine, «ultima nemica sarà distrutta la morte» (1 Cor 15, 26). Allora Cristo potrà dire anche dentro di noi: «Dov'è o morte il tuo pungiglione? Dov'è o morte la tua vittoria?» (Os 13, 14; 1 Cor 15, 55). Fin d'ora perciò il nostro «corpo corruttibile» si rivesta di santità e di «incorruttibilità; e ciò che è mortale cacci via la morte, si ricopra dell'immortalità» del Padre (1 Cor 15, 54). così regnando Dio in noi, possiamo già godere dei beni della rigenerazione e della risurrezione.

martedì 20 novembre 2007

Il dono dell'accompagnamento spirituale (II): l'accompagnato e l'accompagnatore.

Il carisma ed il ministero dell’“accompagnatore” è di colui che entra in relazione con un “accompagnato” avendo consapevolezza e intenzionalità di fare da guida – restando il Signore l’unico Maestro – e di aiutare la persona che accompagna a trarre fuori da sé quella predisposizione, dono dello Spirito, a divenire – attraverso l’ascolto attento della Parola di Dio all’interno della sua Chiesa – pienamente se stessa, ovvero pienamente immagine e somiglianza di quel Dio Padre che l’ha chiamata alla vita secondo un progetto unico ed irripetibile da realizzare in questa meravigliosa relazione fra la creatura ed il suo Creatore nella Chiesa e nel mondo.
L’accompagnatore entra in gioco, nella relazione con l’accompagnato, con tutto se stesso, un “tutto se stesso” umano e spirituale che può avere molti significati, ma che non può prescindere dalla temperanza, dalla fortezza, dalla prudenza e dalla giustizia, virtù stabilite nel proprio cuore dalla grazia dello Spirito.
L’accompagnatore non è tale per una dote particolare – per una differenza, perché è più probo o più pio etc. –, quanto per la propria risposta, libera e responsabile, alla chiamata dello Spirito nell’assumersi un servizio offerto – entro un cammino di discernimento da lui stesso compiuto e che ne ha fatto emergere la Grazia ed il “carisma” – all’intera comunità: “essere” accompagnatori è – a sua volta – un cammino di maturità umana e spirituale in continuo divenire.
In altri termini, si è accompagnatori solo con una storia nella quale si è riconosciuto Dio artefice e protagonista. E’ la Sapienza – parola biblica dello Spirito provata dall’uomo esistenzialmente – il tracciato entro il quale si muove chiunque accompagni, così che sapienza e cammino alimentino sempre una fede che chiede di essere sempre più accresciuta.
L’accompagnatore è tale in virtù della “legge” che incarna, della “Torah” che impartisce nel suo essere Giobbe, il salmista, od uno dei profeti - Elia, Isaia, Geremia, Amos, Osea, Michea, Giovanni il battista etc. – fino a sentirsi investito del discepolato alla maniera di Gesù che – tramite la nostra mediazione – dal dono della Pentecoste ad oggi continua inesauribilmente a condurre verso il Padre tutta l’umanità.
C’è dunque un “uscire” sia dell’accompagnatore che dell’accompagnato, guidati entrambi da un progetto che è l’intenzione dello Spirito nell’aiutare ad ordinare tutti i frutti germinati dai semi lasciati dal Signore nell’arco di ogni storia personale e che passa instancabilmente un’infinità di volte nell’arco della nostra vita.
L’accompagnatore è “imperfetto”, ma in questa imperfezione – in questo suo essere peccatore – si manifesta l’eccellenza dello Spirito, espressione – in colui che accompagna, quanto in colui che è accompagnato – del “timor di Dio”, segno tangibile dell’autorevole presenza divina, paterna e misericordiosa, che agisce nell’umiltà della sua creatura prediletta.
In ogni accompagnamento è la “persona” – accompagnato/accompagnatore – ad esser messa in discussione ed è in questa dinamica di sempre maggior umiltà che vive l’accompagnatore, in quanto nella medesima dinamica si è anche accompagnati dal medesimo Spirito. Solo così si è davvero servi “distaccati” della Parola, affinché la Parola stessa possa efficacemente essere spada e balsamo per chiunque, trafitto dalla potenza di Dio, sente l’inesauribile Voce dell’Amore.
L’accompagnato/accompagnatore nell’abbattere le sue difese di fronte a Dio – e alla forza del suo Spirito – si trova solo, per cui colui che si lascia guidare dallo Spirito raggiunge la maturità spirituale solo se in costante equilibrio con la crescita umana. Non necessita di essere perfetto, ma di sperimentare – nel suo essere fragile e peccatore – la Grazia del Signore nell’affidarsi continuamente alla Misericordia di Dio, unica guida certa ed indefettibile. E’ nel lasciare al Signore il dominio del cuore – tramite lo Spirito che porta la sua pace e la spada – che è possibile acquietare gli spiriti turbolenti che imperversano nel nostro animo, mettersi al secondo posto, dietro Gesù, e camminare verso la casa del Padre allo stesso modo dei discepoli.
L’accompagnato/accompagnatore è colui che pensa di diventare “adulto” nella fede, nella maturità dello spirito ed in quella umana, facendo come i discepoli di Cristo che lo sono diventati in virtù di una conversione successiva al dono della Pentecoste e per questo nell’avere imparato a diventare bambini in età adulta. L’accompagnato/accompagnatore è colui che fa l’esperienza di una costante conversione. E’ solo così che l’accompagnato/accompagnatore si rende disponibile allo Spirito dono del Padre per mezzo del Figlio e lo rintraccia in tutto se stesso ed in tutto il “se stesso” di chi gli è accanto e di fronte.
L’unica mèta che l’accompagnato/accompagnatore umanamente ambisce di raggiungere è la “guarigione” come il ritorno di quell’armonia perduta che dominava nel giardino di Eden prima del peccato da dove ogni storia personale e comunitaria parte e può sempre ripartire.

Nel Giardino di Eden nessuna creatura è perfetta in se stessa se staccata dal suo Creatore. Nell’abbandono di Dio - ma nascosto ancora dentro al Giardino per farsi ri-cercare continuamente da ogni creatura amata - frutto del peccato da parte dell’uomo, ogni uomo può ancora ascoltare la Voce del Creatore grazie a Gesù, il Cristo, il giardiniere che riconsegna all’uomo – in una continua azione di grazia – una vita piena e spirituale degna, ripulita dal peccato per mezzo della sua gloriosa manifestazione sulla Croce.

L’accompagnato/accompagnatore torna sempre al “principio”, perché è colui che continua a convertire tutto se stesso al Signore – al suo Dio e al suo tutto – ripartendo ogni volta – come nel Vangelo secondo Marco – dalla Galilea, mettendosi definitivamente alla sequela di Gesù, dopo averlo pianto amaramente per l’esperienza del peccato e non più trovato nella tomba vuota illuminata solo dallo Spirito della Resurrezione all’oscuro del tempo e della sola ragione umana.

Salmo 19

Ti ascolti il Signore nel giorno della prova, *
ti protegga il nome del Dio di Giacobbe.
Ti mandi l'aiuto dal suo santuario *
e dall'alto di Sion ti sostenga.

Ricordi tutti i tuoi sacrifici *
e gradisca i tuoi olocausti.
Ti conceda secondo il tuo cuore, *
faccia riuscire ogni tuo progetto.

Esulteremo per la tua vittoria, †
spiegheremo i vessilli in nome del nostro Dio; *
adempia il Signore tutte le tue domande.

Ora so che il Signore salva il suo consacrato; †
gli ha risposto dal suo cielo santo *
con la forza vittoriosa della sua destra.

Chi si vanta dei carri e chi dei cavalli, *
noi siamo forti nel nome del Signore nostro Dio.
Quelli si piegano e cadono, *
ma noi restiamo in piedi e siamo saldi.

Salva il re, o Signore, *
rispondici, quando ti invochiamo.

lunedì 19 novembre 2007

l'esperienza delle nostre ferite, in Cristo

«Il Prologo del Vangelo di Giovanni ci dice che la luce è venuta per risplendere nelle tenebre. Ma se non riconosciamo queste tenebre in noi, se non le abbiamo toccate attraverso l'esperienza delle nostre ferite, la luce non può entrarvi. Ci sono diverse tenebre nell'animo umano, c'è il bisogno di controllare e dominare, di voler controllare tutto con la volontà coltivando una personalità dominante che non sa ascoltare e che cercherà sempre di dominare le situazioni. Sulla via discendente, noi lasciamo che lo Spirito Santo penetri nelle nostre fragilità, nel nostro corpo e nella nostra psiche ferita e a poco a poco facciamo l'esperienza della Risurrezione. Se crediamo di essere perfetti, saremo come il fratello maggiore del figliol prodigo che giudica tutto. Ma il figliol prodigo non giudica perchè ha sperimentato il perdono. Si è lasciato avvolgere dalle braccia si suo padre e si è sentito amare così come era, fin nelle sue ferite e nelle sue fragilità. E al termine di questa via discendente si è rialzato per non giudicare più. Anche la vita in comunità, nelle relazioni è una via discendente. Si crede che tutto sia bello e perfetto e poi si scoprono ingiustizie, mancanza d'ascolto, imperfezioni e si incomincia a dubitare. (…)
Possiamo aprirci o chiuderci, dire sì alla vita e cercare di prenderne il comando oppure dire no e farci governare dalle paure: paura dell'avvenire, paura di non essere amati, paura del fallimento, paura di ciò che gli altri pensano di noi,
paura della sofferenza e della morte. Dire sì, invece, non è il sì ingenuo ed idealista, non è il sì ad un sogno o ad un'illusione. E' un sì al nostro essere profondo, un sì al nostro passato, al nostro corpo, alla nostra famiglia d'origine, un sì alla nostra terra di tempeste, di inverni, di sofferenze, ma anche di giornate chiare e soleggiate, di aria fresca, di acqua che scorre, di occhi di bambini, di canti di uccelli.
La comunità, le relazioni sono il luogo della scoperta di ciò che non si può guardare ed accettare: la propria povertà radicale. Si scopre quanto si è piccoli e poveri. Si fatica da accettare questa povertà e sofferenza. E' così forte nell'animo umano il rifiuto della sofferenza!
La saggezza della via discendente consiste nell’accogliere le nostre povertà, le nostre ferite e quelle degli altri, ci fa scoprire progressivamente il mondo d’angoscia che abbiamo dentro, la nostra durezza, la nostra capacità di fare anche del male. Questa via ci rivela semplicemente che Dio risiede nel cuore della nostra povertà e della nostra fragilità. (…)
Qualche persona di ritorno da Calcutta diceva che non sarebbe mai più tornata perchè aveva visto morire delle persone per strada. Madre Teresa ha detto:"Ho visto delle persone morire per strada. Io resto".
Gesù continua a dire: nelle tue sofferenze, nelle tue tenebre, nel tuo fallimento Io resto. (…)

Si vive da risorti riconoscendo che in Cristo tutto è stato adempiuto. Finché continueremo ad agire come se la salvezza del mondo dipendesse da noi ci mancherà la fede di smuovere le montagne. In Cristo la sofferenza ed il dolore umano sono stati già accettati e sofferti; in Lui la nostra umanità lacerata è stata riconciliata ed attratta nell’intimità del rapporto tra il Padre ed il Figlio. La nostra azione va quindi intesa come una disciplina con la quale rendere visibile ciò che è stato già compiuto. E' un'azione basata sulla fiducia di camminare su un terreno solido anche quando siamo circondati dal caos, dalla confusione, dalla violenza, dall'odio. Ce ne offre un toccante esempio una donna che per molti anni ha vissuto e lavorato nel Burundi. Un giorno fu testimone di una crudele guerra tribale che distrusse tutto quello che lei ed i suoi collaboratori avevano costruito. Molta gente innocente che lei aveva teneramente amato fu massacrata dinanzi ai suoi occhi. Più tardi poteva dire che la consapevolezza che tutta questa sofferenza era stata compiuta in Cristo le aveva impedito di subire un collasso mentale e psicologico. La sua profonda comprensione dell'atto salvifico di Dio le consentì di non andarsene e di rimanere attiva in mezzo ad un'indescrivibile miseria, affrontando la realtà della situazione con occhi ed orecchi aperti. Le sue azioni non miravano solo a ricostruire, e quindi a superare i mali di cui era stata testimone, ma erano un modo per ricordare alla sua gente che Dio non è un Dio di odio e di violenza, ma un Dio di tenerezza e di compassione. Forse solo quelli che hanno sofferto molto possono comprendere che cosa significa dire che Cristo ha sofferto i nostri dolori ed ha compiuto sulla croce la nostra riconciliazione».

(Jean Vanire - Henri J.M.Nouwen)

lunedì 12 novembre 2007

Peccato! ... Anzi, Grazia ...

Mio caro, spero che ti piaccia, se così ti chiamo.
E' vero, l'intimità potrebbe non essere tale per darci e dirci del caro, ma l'intimità del cuore attraversa l'esistenze e supera ogni differenza.

Così, piacciati lo stesso sentirti chiamare in questa dolce maniera.
Non si è mai liberi come quando un uomo impara ad essere liberato dall'amore. E questo grande amore è sempre e comunque Cristo, per noi battezzati.

Ti mando o ti rigiro questo scritto, inoltratomi da una conoscenza avvenuta ad uno dei miei Esercizi Spirituali ignaziani.

Vorrai farli un giorno in libertà ed in responsabilità.
Ciò che libera, fortifica ed intenerisce ...
Un abbraccio ed un bacio sulla fronte.

Tuo F.C.C.

"Oggi sono omosessuale, ma non mi identifico in ciò che è la mia sessualità.
Oggi sono omosessuale, ma libero, perché qualcuno mi ha toccato il cuore attraverso tutta la mia esistenza.

E' stato duro riconoscerlo, ma Lui è sempre stato in me, con me, per me.
Ma il peccato, quell'amore al negativo che ci fa arroccare chiusi in noi stessi, aveva patinato tutta la mia bella esistenza. Così, tutta la mia omosessualità, se così si può dire, è stata toccata sia dal peccato, ma molto di più dall'amore di Cristo!

Oggi sono omosessuale, ma che significa?
Il mio volto è sempre il solito e non mi sembra di essere diverso da me stesso, da quel me stesso amato infinitamente nonostante l'insorgere del peccato.

Peccato, che parola bellissima in Cristo!
Peccato, oggi è una parola che riesco a tenere sulle labbra senza sensi di colpa, ma solo col desiderio di portare tutto a Cristo, anche l'amore più carnale che la mia mente possa partorire ed il mio corpo possa abbracciare ...

Solo Cristo è Signore e solo Lui risiede nel peccato dove può far risplendere la luce meravigliosa dell'amore, oltre ogni nostro dubbio ed oltre ogni nostra manchevolezza come a "noi" è data sperimentare ...

Sì, ma è lì il nostro peccato?
Sì, "noi" abbiamo un peccato specifico, ma non è quello che immaginiamo ...

Così, è giusto dire che come omosessuali sicuramente sperimentiamo un peccato tutto nostro in quell'orientamento che tanto avremmo voluto diverso o forse nascondere, ma ... Ma più scaviamo e più ci apriamo a Cristo, più scopriamo che non è ciò che ci eravamo cuciti addosso il peccato, perché liberati da Cristo dai sensi di colpa - da ciò che come uomini ci eravamo inflitti da soli - finalmente scopriamo tutte le pagine del Vangelo e soltanto nella durezza del cuore l'origine di ogni peccato ... Stolto, Pietro, ed allora, stolto anche io ...

Scopriamo Marco, Matteo, Luca, Giovanni, scopriamo i loro Vangeli, scopriamo la vicinanza di un Dio che si è fatto carne in Gesù per parlarci della sorprendente vita nello Spirito che è bellezza, bontà e verità in questo frammento di carne che noi viviamo nella finitezza dell'esistenza ... La vita acquista luce, il buio è acceso, la carne non muore, ogni amore è restituito a se stesso, purificato, rigenerato ...

Quale amore non potrebbe mai portar a compimento Cristo, Lui il Signore della Storia, della Creazione e della Salvezza? Solo Lui porta a pienezza ogni natura, perché l'uomo sia ciò che il Padre ha sempre voluto che fosse fin dal momento in cui lo Spirito ha soffiato l'amore del Padre e del Figlio, attraverso il Figlio, nella creazione.

Noi siamo rivestiti di Cristo, noi - poveri manchevoli, storpi, zoppi, arrendevoli alle nostre necessità e alle nostre caducità della carne - che sperimentiamo la luce della Grazia che mai prostituisce il peccato con l'Amore od inverte l'Amore accontentandosi del peccato ...

Noi viviamo una vita dello Spirito che è ben più grande di ogni peccato! E' Grazia!

Noi amiamo, è questa la forza di chi si converte a Cristo e non teme il peccato, ma lo vince con Cristo, in Cristo, per Cristo in attesa della pienezza in Lui, nella Chiesa, in quella fraternità di comunione di santi che Lui ha generato donando se stesso sulla Croce ..."

domenica 4 novembre 2007

Chi è il santo? ... Questa è la festa dei santi ...

Da uno scritto di don Michele Do
"Festa di tutti i santi 1 novembre 1993"

«Oggi, festa di tutti i Santi, penso sia un momento alto nella liturgia della chiesa e nella vita del cristiano, anzi direi che se non si giunge a questa comunione dei santi e delle cose sante, sono sterili e vane anche le feste del Natale, le feste della Pasqua; perché questa direi che è il vertice, è la vetta da raggiungere e che viene additata come orizzonte del cristiano. È il bene che fa festa, è il bene che fa comunione: questa è la festa dei santi. Ed è una comunione con la bellezza, con la luce, con le vette, con i vertici della vita. Ẻ un’esperienza vitale oggi, soprattutto dove ci sono altre comunioni, che però non sono comunioni, ma aggregazioni, in questa palude che sta diventando la vita associata. (…)
È la comunione di cui parla Gesù nel suo vangelo: “Là dove due o tre sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. La comunione nella luce e con la luce: senza questa comunione non c’è possibilità di vita, di sentire il divino e di fare l’esperienza di Dio. Quest’alta comunione pone Dio in mezzo a noi, ci fa sentire Dio e ci fa sentire la sua presenza. È difficile sentire Dio se siamo soli.
Nascono allora nella nostra vita quelle amicizie che sono “il sacramento di Dio” e di tutto quello che è alto e divino nella vita: questa è la comunione dei santi e delle cose sante. Alte amicizie, alte comunioni, in cui Dio prende il volto degli amici, prende il nostro volto. Questo è evento sacro.

Chi è il santo?
(…) Il santo è colui che nella sua vita ha cercato in qualche modo di interiorizzare qualche cosa di Dio, di interiorizzare Dio accogliendo l’invito di Gesù: “Siate perfetti, come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli; siate misericordiosi, come misericordioso è il Padre vostro che è nei cieli”. È questa la santità: quando un uomo nella sua vita riesce a interiorizzare qualcosa di Dio e lo lascia trasparire.
L’uomo è il solo sacramento di Dio.
L’uomo quando si è trasfigurato ed ha interiorizzato Dio, è l’unica, sola, alta e grande parola di Dio. Diversamente Dio è silenzioso e muto. Parla attraverso l’uomo trasfigurato.
Questi uomini dicono Dio con la loro vita e con il loro volto. Sono come il roveto ardente nelle nostre notti, nelle nostre oscurità e sul nostro cammino. E dal roveto ardente esce la forza della presenza: queste sono presenze che hanno interiorizzato Dio senza saperlo – perché (come scrive C.Magris) l’aureola i santi la portano dietro sul capo, non se la mettono davanti: la vecchina del tempio di Gerusalemme che depone le sue monetine, furtiva, vergognosa di sé, non sapeva di essere grande. Gesù che l’ha vista, l’ha illuminata.
Di fronte a queste creature umili e grandi, se abbiamo intelligenza e cuore, noi sentiamo l’invito, come davanti al roveto ardente: “scalzati, perché la terra che tu calpesti è sacra”. Ed allora nasce con spontaneità la reverenza, l’inchino. Altrimenti siamo come il branco che calpesta tutto; per questo si cintano le sorgenti pure; si devono cintare, non per segnare una proprietà, ma per proteggere la purezza, per custodire il fuoco sacro.
Vedete come è universale il senso religioso, quello alto: ovunque si trovano questi momenti fondamentali dell’esperienza religiosa, ed allora, reverenti, come gli indù che portando le mani da capo a capo, da cuore a cuore, nell’inchino dicono la parola sacra namaste, diciamo anche noi questa sacra parola: “Saluto reverente il Dio che è in te”.
Questa è la chiesa, la grande chiesa in cui il cristiano, come discepolo di Cristo, sente di dovere mettere radici, radicato nella chiesa come un albero nella sua zolla. Allora l’uomo in questa chiesa ritrova le sue radici divine e le sue vette divine. Sa che è in cammino, nonostante tutta la sua povertà ed il suo travaglio, verso questa divina pienezza, che noi contempliamo oggi raggiunta lassù nei cieli dove Dio è tutto in tutte le cose.
Amo molto la preghiera dell’Angelo:
“Donaci o Signore, un angelo amico
Che ci riveli e ci faccia sentire la tua bontà ed il tuo amore
e ci renda capaci di pietà verso ogni creatura.
Donaci un angelo di comunione con cui poter condividere i doni della vita.
Donaci, o Signore, un angelo buono che custodisca la nostra anima
che vegli sulla nostra vita, che guidi il nostro cammino.
Ci sia egli sempre vicino col il suo volto luminoso
e ci conduca a Te, ai tuoi santi, a coloro che amiamo e ci amano
ed anche a coloro che non ci amano
e facciamo fatica ad amare,
perché l’amore deve vincere tutte le barriere”.
Ecco, è questa comunione alta che diventa il pane per tutti i pellegrini.
Quando un uomo tenta di vivere il vangelo, diventa come Gesù, pane: “il tuo pane, o Signore, sostiene i poveri in cammino”. Questa è amicizia, questa è alta comunione, che diventa pane dell’angelo. (…)
Siamo nella dimensione di Dio, siamo nella dimensione dello Spirito che non conosce lontananza geografica. Si è soli e tuttavia si è in comunione. Allora queste amicizie, questo pane dell’angelo, ci rende capaci, come Elia, di camminare da soli, anche nel deserto.
Questo, penso che sia il monachesimo di cui abbiamo bisogno tutti: questo eterno, universale, essenziale monachesimo. Monachesimo senza voti, senza cinte murarie, senza monasteri. Il monaco vero vive ovunque, disseminato ovunque. Nel cap. 5° della splendida lettera a Diogneto, si legge: “sparsi ovunque”, immersi ovunque. Il monaco è un uomo capace di stare in piedi da solo e di camminare da solo, custodendo intatto dentro di sé tutto un mondo di realtà, di valori sacri e preziosi che non s’hanno da cedere mai. Questo è il monaco, questa è la chiesa fatta di monaci solitari, perché nessuno è capace di comunione come i solitari. E se non siamo capaci di solitudine, le nostre comunioni sono come il giochetto dei bambini che fanno i castelli con le carte: basta un alito e si disgregano, inconsistenti, effimeri. Questo monachesimo rende ognuno capace di attraversare la vita con un’anima intatta, sapendo che l’anima non si ha da cedere mai, che l’anima si dona solo a Dio, ai santi ed alla luce. Si è allora come sentinelle nella notte, ma non si ha più paura della notte. Si veglia in attesa dell’aurora, del regno di Dio; ed a tratti alla domanda: “a che punto è la notte?” si risponde: “Non temete, viene il mattino!”. E si continua il cammino.

I santi, amici, non fanno mai branco.
Dove c’è branco non c’è lo Spirito. Solo quando si esce dal branco si può cominciare a fare comunione. Il compito maggiore è quello di creare tensioni, di creare inquietudini, di creare tormenti. E solo quando si è abitati da una inquietudine, ci si mette alla ricerca di qualcosa; allora è possibile l’evangelizzazione».

venerdì 2 novembre 2007

Io lo so che il mio Redentore è vivo (Gb 19,1.23-27a)

Dal libro di Giobbe

Giobbe allora rispose:

"Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro sul piombo,
per sempre s'incidessero sulla roccia!
Io lo so che il mio Redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
e i miei occhi lo contempleranno non da straniero".

Salmo 146 (145) - Inno al Dio che soccorre

Loda il Signore, anima mia: †
loderò il Signore per tutta la mia vita, *
finché vivo canterò inni al mio Dio.

Non confidate nei potenti, *
in un uomo che non può salvare.
Esala lo spirito e ritorna alla terra; *
in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni.

Beato chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe, *
chi spera nel Signore suo Dio,
creatore del cielo e della terra, *
del mare e di quanto contiene.
Egli è fedele per sempre, †
rende giustizia agli oppressi, *
dà il pane agli affamati.

Il Signore libera i prigionieri, *
il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto, *
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge lo straniero, †
egli sostiene l'orfano e la vedova, *
ma sconvolge le vie degli empi.
Il Signore regna per sempre, *
il tuo Dio, o Sion, per ogni generazione.

giovedì 1 novembre 2007

Sul giorno dei defunti

Gomito a gomito con la morte, scrive un amico caro, cui rimando per la vostra lettura (http://velapomacineclub.blogspot.com/). Al quale ho risposto ...

Tutto ciò che si cerca con l'autenticità della verità umana ha senso e logica. Di fronte alla morte esiste solo il silenzio, l'attesa di una nuova vita, di un bambino che rinasce. Ascoltare l'altro, l'infinitamente altro, si può solo di fronte alla morte. La morte è la morte. La morte è solo la morte anche per un credente. Non c'è niente nella morte.
Eppure, per il credente cristiano o per l'ateo che apprezza la lectio magistralis dei Vangeli, di fronte alla morte ci può essere anche una straziante esondazione che apre all'infinito.
Richiamo il Vangelo secondo Giovanni, colà dove Marta è disperata ed attende l'amico amato - Gesù - perché le è morto il fratello. Lì tutto è strazio perché l'assoluto della vita si è improvvisamente tramutato. Gesù non arriva a rimettere - banalmente - le cose a posto, ma ad essere straziato dall'amore di una donna amica, sorella, amata.
La morte non è niente, ma noi siamo vivi di fronte ad essa e non possiamo immedesimarci in essa. Noi chiediamo la vita, noi desideriamo la vita.
Per noi percepire il termine della nostra vita è uno scandalo.
Di fronte a questo trauma nessuno è potente.
Gesù condivide la nostra stessa storia.
Quella stessa della morte assoluta.
Ricordo nel bellissimo Vangelo secondo Marco che anche le donne arrivando al sepolcro scappano e che quell'apparizione di Gesù - in mentite spoglie - di fronte a loro chiede di riferire a Pietro di tornare in Galilea.
Ebbene, io immagino che Pietro appena sente dirsi quelle parole comprende che solo il Signore, il suo Gesù, quel Gesù amato avrebbe potuto mandargli un tale messaggio. Ed allora corre, affronta la lotta dell'assurdo, arriva alla tomba, entra in essa, si siede in essa e comprende ...
Quello che per noi cristiani è la luce: la resurrezione.
Ma solo dentro la tomba Pietro percepisce l'assurdo, coglie il trauma, il dolore assoluto, l'essenza nera ed assoluta della morte, e comprende che solo Gesù poteva avere pronuciato quelle parole ...
Piange, Pietro, sicuramente piange trafitto d'Amore infinito, incomprensibile ...
Trafitto da un amore che proviene da una tomba oscura dove lui percepisce vita ...
Così, riparte e riparte dalla Galilea, dove la sua storia, la storia dei discepoli era iniziata con Gesù ...
Un nuovo inizio per affrontare il nulla della morte o la potenza di una promessa alla sequela di Gesù.

Un abbraccio, amico mio.