mercoledì 9 luglio 2008

Viaggiare, visionare, visitare, modi di frequentare un Congresso Internazionale

Ci sono occasioni di confronto e di modestia professionale che non dobbiamo lasciarci sfuggire. Il fuori congresso, seppur non paragonabile per ricchezza al fuori salone milanese, è stato una piccola gemma all’interno del Congresso internazionale organizzato quest’anno a Torino. Vorrei suggerire solo alcuni percorsi, non tanto illustrarli.

Una prima evidenza è stata che Torino si è educata all’architettura; nel mentre al Lingotto si svolgeva il XXIII Congresso Mondiale di Architettura, ovunque in città, una piccola mostra, un evento ha fatto esperire ai cittadini l’architettura come parte della città, che l’architettura è un “valore” che le città formano, costruiscono per il bene comune e per le generazioni future. Si può dire amenamente che senza cultura l’uomo resta schiavo della clava, seppur grotte, palafitte e capanne conservano tutta la cultura che l’uomo ha sempre espresso in ogni epoca, affrancandosi sempre di più dalla naturalità selvaggia. Potremo dire che l’architettura segue anche i passi della democrazia, oltre che dei totalitarismi.

Mi sarei aspettato grandi mostre organizzate dai vari paesi invitati al Congresso internazionale, eppure se deluso da Cina, Giappone e Russia ho allo stesso tempo trovato fervide e ricche di spessore le piccole mostre organizzate dalla Repubblica Slovacca e dalla Turchia, ad esempio. Si può imparare ad essere architetti, oggi, non essendo nessuno oppure essendo un architetto da taccuino, un viaggiatore sprovveduto ed imprudente? Viaggiare, visionare, visitare sono termini e modi per frequentare un congresso come per interpretare la professione di architetto.
Nel mondo dell’architettura moderna ci sono linguaggi, meglio sarebbe dire mode, che sicuramente attraversano i tempi e gli spazi – non è difficile leggere nel numero maggiore dei casi mostrati nel fuori congresso torinese i soliti stilemi sia ad Istanbul che a Pechino – ma allo stesso ci sono “scuole” di pensiero dove eticamente si conservano modalità di approccio alla professione che implicano la tradizione e la modestia del professionista. Ebbene, ho imparato nel vedere il padiglione della Slovacchia che si può essere premiati per un concorso non abiurando il contatto col proprio territorio, ed ho imparato visionando le opere in mostra al padiglione turco che si può essere moderni senza essere etnicamente irriconoscibili. Una bandiera, a volte, non è segno di rigidezza, ma di nazionalità, di storia, di valori da scambiare nel mondo per il bene comune. Certamente, ho visto in questi paesi un attaccamento alle proprie radici che nel moderno mondo italiano sembrano scomparse.
Non si deve essere obbligatoriamente internazionali, come neppure vernacolari, ma l’architettura di questo tempo può permettersi di comunicare conoscenza sia dal passato che dalla modernità. Il recupero di un’architettura di qualità – dentro le nostre città sempre più drasticamente invivibili – sta avvenendo anche grazie al recupero di tecniche ed esperienze pre moderniste, oltre che ideologicamente ecologiste, e senza abiurare le conoscenze tecnologiche dell’inizio di questo secolo energivoro. Ci salverà la bellezza e la tecnologia?

Ho scoperto, passeggiando per Torino, che può esserci un uso saggio dei moderni mezzi di simulazione virtuale, potenti ed a volte violenti, quando si vuole far sperimentare al “moderno” studente di architettura, come al comune cittadino, che cinquantanni fa un certo Le Corbusier diede vita con alcuni suoi amici, all’interno di un padiglione, ad un concerto elettronico in cui lo spettatore era stimolato acusticamente e visivamente. Tema del concerto? L’umanità, l’evoluzione dell’umanità. Si può essere “moderni” anche essendo antichi, recuperando costantemente valori che sono prima di ogni nascita umana. Anche questo è parte di una visione etica dell’architettura, prima che estetica.

Ci si può imbattere anche nel padiglione della municipalità madrilena dove esaustivamente è stato mostrato il grande intervento pubblico per le abitazioni sociali. Inizialmente un grosso pannello indicava i quartieri, le nuove zone di espansione pianificate secondo una nuova regolamentazione, successivamente tre grandi pannelli mostravano la pianificazione urbana dei quartieri in via di costruzione, passando oltre un video illustrava la grande opera intrapresa per affrontare un problema strutturale in una società in continuo sviluppo, mentre una trentina di pannelli mettevano in mostra con dettagli costruttivi, plastici e video, ogni singolo progetto disegnato da studi professionali invitati a misurarsi – come tessera di un mosaico – dentro un unico puzzle. Infine, due appartamenti tipo di due edifici tipo sono stati stampati a terra perché l’architetto avventore – esattamente come me – potesse procedere a sperimentare sulla propria pelle ciò che in Spagna non solo si sta tentando di fare, ma si sta facendo, avendo bene in mente che l’unica urbanistica possibile è quella costruita.

Giovani architetti tedeschi, al riparo del politecnico di Torino e dentro al Lingotto, hanno fatto poi bella mostra non tanto di virtuosismi, ma di eleganza e di buona architettura moderna.

Che dire, infine? Sicuramente a noi italiani manca un quadro normativo di riferimento tale da interpretare le necessità della società moderna e di far fronte alle necessità sociali con un’architettura che parla la stessa lingua dall’urbanistica all’edilizia.

Filippo Boretti
Architetto da Prato


* per chi fosse curioso:
http://www.flickr.com/photos/felicinocuorcontento/collections/72157606048640322/